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La Ministra, la Sindaca, la Medica: l’assurda guerra dell’italiano politicamente corretto

Una vera e propria guerra mediatica è in atto da qualche anno sull’italiano politicamente corretto, forse proprio da quando il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricoperto il suo ruolo politico. C’è chi dice che alcuni appellativi al femminile siano inascoltabili, c’è chi lotta per inserirli abitualmente null’uso linguistico.
A cura di Silvia Buffo
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Il presidente della Camera, Laura Boldrini, in prima linea nell'uso di un italiano polticamente corretto.
Il presidente della Camera, Laura Boldrini, in prima linea nell'uso di un italiano polticamente corretto.

È ricominciato tutto con una delle sarcastiche affermazioni social da parte di Vittorio Sgarbi: «Il mite Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca mi invita ad essere meno aggessivo e quindi a non entrare nella polemica relativa ai generi, su parole come "la Sindaca", "la Ministra". Allora mi viene in mente che quando stiamo male abbiamo bisogno del medico e chiamiamo il medico, se arriva una donna la chiameremo "Medica"? Se Marazzini ha bisogno di un medico e arriva una dottoressa la chiama "Medica"? E siccome "Medica" è come "Sindaca", esattamente lo stesso numero di sillabe, mi chiedo perché "Sindaca" sì e "Medica" no? Allora non sarò aggressivo, non sarò polemico ma perché alcune parole possono essere mutate, e in senso generale indicare ruoli ed essere adattate alla delicatezza delle funzioni femminili che prediligono una declinazione nel loro genere? E allora perché non "Medica»?

Sgarbi lancia una provocazione alla Crusca e cita Napolitano come uomo dotto da ascoltare sulla questione

In un precedente video postato aveva individuato un esempio ancora più calzante per sottolineare la bruttezza e dissonanza di alcuni nomi al femminile: "Come la chiameremmo la Boldrina, presidentessa della camera dei deputati e delle deputate"? Sgarbi cita anche Napolitano, che in parlamento ha di recente definito i termini "ministra" e "sindaca", orribili e abominevoli appellativi, ricordando al presidente della Camera che non è lei la grammatica in persona, che la sua funzione è un'altra e che non sta a lei stabilire come bisogna parlare o scrivere. Sgarbi ricorda tramite l'esempio del presidente Napolitano che "i ruoli prescindono dai sessi, non si applicano ai sessi".

La Crusca si mostra tollerante verso gli appellativi al femminile, comunemente di ‘uso maschile'

L'atteggiamento della Crusca è tollerante, aperto, flessibile ma c'è chi come Sgarbi lo trova assurdo. Difatti, grazie ai suoi video la cacofonia, l'inascoltabilità di certi appellativi è resa palese, ma ciò che indigna lo storico dell'arte è anche l'incoerenza con cui si riesce ad utilizzare alcuni appellativi al femminile, facendo valere la conversione al genere solo per alcuni nomi e non estendendola a tutti. La polemica bolle un po' ovunque su Internet, il dibattito è ampio e si estende a molti. Sempre sui social in merito alla questione si è espressa anche Vera Gheno, Linguistica e autrice di "Guida pratica all'italiano scritto" per Cesati Editore, docente all'Università di Firenze e di Siena, che dal 2000 collabora con l'Accademia della Crusca.

Le ragioni sociologiche da cui non possiamo prescindere nell'evoluzione della lingua

Vera Gheno cerca di fare chiarezza spiegando quanto sta accadendo alla nostra lingua e che, forse per ragioni sociologiche, vale la pena essere tolleranti verso chi sceglie di adoperare nomi al femminile, relativi generalmente a ruoli maschili:

La posizione della Crusca, e di riflesso anche di alcune figure politiche, è di affermare che queste forme sono corrette: non sono, insomma, foriere di una sanzione sociale. Non si tratta tanto di imporle quanto di avallare la loro correttezza sociolinguistica: ribadire che la norma, per l'appunto, può prevedere che si creino parole nuove per descrivere una realtà mutata e che non si tratta di una corruzione della lingua, ma di una sua normale evoluzione. Ma siccome è, appunto, normale che le persone cerchino certezze, anche linguistiche, è anche giustificabile che chi sta in posizioni di rilievo, o perché esperto o perché è la presidente della Camera, tracci una direzione, ossia vada oltre il consiglio per dare indicazioni più pregnanti.

Anche la risposta, quindi, non può che essere mista: dal mio canto mi sento di consigliare, o raccomandare, l'uso delle forme femminili, semplicemente perché il nostro sistema linguistico prevede la loro creazione, prevede che il lessico si ampli in questa direzione e perché mi sembra una logica conseguenza di una realtà mutata; ma dall'altra parte saranno davvero i parlanti a decidere se queste forme entreranno nell'uso o no. Detto questo, non occorre staccare la testa a chi la pensa diversamente… però possiamo continuare a discuterne, pacificamente.

Se il mondo cambia, la lingua cambia di conseguenza

L'infinita diatriba è scaturita forse nel preciso momento in cui la Boldrini qualche anno fa ha ricoperto il suo ruolo da Presidente della Camera. Posizioni radicalmente opposte, da un lato i tradizionalisti che trovano abominevole un nome al femminile di comune uso al maschile, dall'altro i politicamente corretti e il pungente femminismo linguistico. Come orientarsi? Il modo migliore è fare riferimento alla Crusca, che si mostra aperta al dibattito e tollerante, ricordandoci che se il mondo cambia, cambia anche la lingua.

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