A quanto corrisponde la metà del doppio? Le letteratura lo sa, ma spesso non lo dice. E non perché sia pigra, ma perché nessuno la interroga, finendo per chiedere troppo spesso alla scienza, all’economia e ai modelli tradizionali della logica, con la speranza che le discipline siano in grado di fornirci una risposta tautologica e consolatoria: la metà del doppio è l'altra metà. Tuttavia se c'è qualcosa che gli ultimi mesi dal diffondersi della pandemia in poi ci stanno dimostrando è che i modelli scientifici non possiedono tutte le risposte. La verità, sembra dirci Fernando Bermúdez (scrittore argentino, classe ’62, di stanza a Stoccolma, in Svezia) è che La metà del doppio (questo il titolo della racconta pubblicata dalla campana Edizioni Spartaco, pp. 133, euro 14) non va calcolata, ma pesata. Con una bilancia starata, ça va sans dire. Il risultato di questo processo è l’approssimazione, il difetto, l'inadeguatezza dell'essere metà, l’imperfezione.
Se infatti è possibile individuare una radice comune ai sette racconti di questa raccolta, che nei primi anni Novanta si aggiudicò il Premio Cortàzar, prima che l’autore si ritirasse dalla scrittura (almeno quella pubblicata, non sappiamo se e quando la pratichi in modo diverso e privato, e se non stia lavorando a qualcos’altro), è la capacità di tenere insieme racconto e riflessione sulla scrittura (quella di Bermúdez è una scrittura che ragiona su se stessa mentre procede) scoprendo la radice dei suoi personaggi nell’imperfezione, come tensione e mai come approdo compiuto.
Sia al livello della tecnica letteraria di Bermúdez – che non può non fare i conti con J.L. Borges e Julio Cortàzar, ma che trova riferimenti più sinceri negli smarrimenti letterari di Ricardo Piglia, negli esercizi di stile di Raymond Queneau e nelle impalcature metaletterarie di Italo Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore – sia a un livello simbolico, attraverso la presenza del difetto, spesso fisico, che si intravede attraverso la disabilità dei personaggi presenti in alcuni racconti come Mezzanotte passata e Mappa mundi.
Tutta la materia letteraria è però incastonata in un’architettura del racconto precisa, dove di pari passo alle epifanie che la scrittura incontra nel suo farsi, si manifesta il contraltare di una dimensione rigorosa, a metà tra geometria e sogno. Fatta di stratificazioni e repentini cambi di direzione, svolti attraverso piani temporali sfalsati che, tra qualche psicologismo risolto in chiave poetica e un costante ma dolente senso di perdita, aleggiano sulla narrazione labirintica da cui non si esce se non ammettendo la sconfitta, di nuovo: l’imperfezione.
E lo fa giocando con i generi, dall’apparente detective story di Blomma al codice del fantastico di Hugo Talmann, morto a New York, sfumando nell’ironia (Esatta come due più due fa tre) per finire avvolta nella spirale del labirinto di borgesiana memoria. Dove l’unica possibilità di fuga sta nello stile di scrittura dello scrittore argentino, giocato sul registro della sottrazione e di una scrittura a volte lirica (la traduzione, come l'utile postfazione sulla letteratura argentina è affidata a Giovanni Barone), affidando al lettore, sfidato a entrare nel labirinto, l’unica possibilità di salvezza: sottrarre l’imperfezione all’oblio del silenzio, raccontandola, ricordandoci che in letteratura la metà del doppio non è mai esattamente l'altra metà.