Il saggio postumo di Michela Murgia, Dare la vita, uscito oggi per Rizzoli, comincia con un proposito paradossale. Lei che in vita combatté con tutte le sue forze contro mammismo e familismo, contro la supposta superiorità morale di chi certe cose le “dice da madre”, mette subito in chiaro una promessa spiazzante: lei certe cose le dirà “da madre queer”. E non perché questo titolo le assicuri chissà quale privilegio. Per dire qualcosa in quanto qualcuno si deve avere la certezza di un’identità, un lusso (o una sfortuna, dipende dai punti di vista) che la parola queer non concede.
Dare la vita mette insieme due temi che spesso sono stati percepiti come lontani o addirittura inconciliabili: la queerness, che Murgia definisce “la scelta di abitare sulla soglia delle identità”, e la maternità. Il breve saggio, che raccoglie testi scritti tra il 2016 e il 2023, riesce però a dimostrare la coesione profonda tra i due argomenti. Innanzitutto perché il testo iniziale – il più intimo, ma anche il più politico – stabilisce chiaramente che la maternità (che non va confusa con la gravidanza né con la capacità di “dare la vita”) è un’esperienza liminale tanto quanto quella della queerness.
La maternità è un problema politico, nel senso che tocca il nervo scoperto della relazione tra famiglia, individui e Stato. Anche se le esperienze autentiche e concrete delle madri raramente trovano ascolto nella narrazione dominante, la maternità occupa uno spazio ingombrante nel dibattito pubblico, specie quando si parla di calo demografico, di aborto o di gestazione per altri, tema che occupa tutta la seconda parte di Dare la vita. Un noto proverbio africano dice che serve un villaggio per crescere un bambino. Ma, fa intelligentemente notare Murgia, ormai questo proverbio viene interpretato al contrario: serve un bambino per crescere un villaggio, ovvero tutto ciò che ruota intorno all’esperienza della gestazione, della nascita, della crescita di un figlio va interpretato solo ed esclusivamente come un motore di crescita economica. E così l’esperienza della maternità, anche quella ideale alla Mulino Bianco, finisce con lo scomparire.
Se a tutto questo si aggiunge la queerness, un legame dove il sangue non conta nulla e i rapporti sono impossibili da capire a un primo sguardo, non solo l’invisibilità aumenta, ma anche il rischio di incasellare ed etichettare tutto in una versione rassicurante. Molte pagine di Dare la vita sono dedicate alla paziente demolizione di questo tentativo, che per Murgia è aumentato esponenzialmente quando ha deciso di parlare in pubblico della sua famiglia queer. I giornali hanno cominciato a domandarsi chi fosse parente di chi, chi figlio di chi, chi fosse di volta in volta “la compagna di Michela Murgia” o “il marito di Michela Murgia”. E dall’altro lato, parte della comunità LGBTQ+ le rimproverava il mancato coming out, la cancellazione della bisessualità, la presunta appropriazione di termini e modi di vivere che non le appartenevano.
Ma sarebbe riduttivo ritenere Dare la vita una semplice risposta a queste “critiche”. D’altronde, Murgia ha sempre avuto la capacità insostituibile di difendersi dagli attacchi portando sempre un elemento ulteriore per trasformare una polemica strumentale o un attacco personale in un gesto politico. Anche questo saggio si inserisce in questa tradizione: protegge un’identità (e qualche volta si toglie dei sassolini dalle scarpe) ma dice anche qualcosa di più importante. “Il primo marcatore della queerness” scrive Murgia, “è la generazione di volontà, la capacità non di riprodursi, banalmente animalesco o industriale, capitalista, consumistico, ma quella di moltiplicarsi”.
In questa idea di maternità e queerness come moltiplicazione echeggia molto il pensiero di Donna Haraway, filosofa femminista e antispecista. L’invito di Haraway a “fare parentele, non bambini” non è un rifiuto della maternità tout court, ma un invito a esplorare altre forme di cura e parentela, forme che non escludono la possibilità di essere madre, di generare, di dare la vita in modi diversi da quelli previsti dalla norma. Con questo libro, Murgia esplora questa possibilità non come un’ipotesi teorica, ma come una concreta esperienza di vita, “la più importante” che pure “non esiste”. Non è semplice sganciare l’esperienza incorporata della maternità da quello che viene a più riprese inquadrato come istinto, destino, missione o addirittura compito delle donne. Murgia non ha paura di usare una parola pericolosa, “vocazione”, che però riesce a spogliare di tutto il misticismo che si porta dietro.
Dare la vita è un libro importante non solo per le circostanze in cui è stato scritto e pubblicato, ma perché propone una visione radicale della maternità che in Italia ancora manca. La maternità, o per meglio dire il materno, è stato al centro del dibattito femminista italiano per moltissimi anni, occupando prima lo spazio individuale e collettivo, e poi quello simbolico, ma il risultato è stato spesso quello di esaltare ulteriormente la mistica della donna-madre. Oggi i dibattiti sulla maternità, specie per le femministe più giovani, sembrano poco produttivi o interessanti, sicuramente anche a causa della pressione sociale legata a diventare madri. Con Dare la vita, Murgia spazza via ogni possibile divisione tra madri e non madri per spostare il dibattito su ciò che le interessa: non di chi sia la madre, ma chi sia. E se qualcuno pensa che si tratta di un discorso stantio o superato, si ricrederà osservando lo scompiglio e la meraviglia che questo libro porterà nel nostro Paese.