"Ho fame". Il ragazzo per strada mi guarda stravolto, labbra screpolate, occhi immensi come il mare. "Ho fame" ripete. Ha tra le mani un pezzo di pane, me lo sta allungando come all'offertorio. E io penso: "Diamine, non ha la mascherina". In realtà, anche se non riesce a dirlo, vorrebbe che gli riempissi quel pezzo di pane. Con una fetta di prosciutto, di formaggio, del cibo, insomma. In giro per il mio quartiere, durante i giorni del secondo lockdown – un quartiere popolare tra il centro e la periferia di Napoli Nord – vedo sempre più persone che hanno bisogno di cibo e che il cibo lo chiede. Anche se provo ribrezzo per la retorica insita dentro certi facili giudizi e nutro un rispetto enorme per tutti i lavoratori degli impianti sciistici messi in ginocchio dal Coronavirus, il fatto che la gente stia morendo di fame per strada mi sembra un problema più grave di cui occuparsi rispetto a ciò che propone la dieta mediatica. Di sicuro più delle vacanze natalizie, dei brindisi ai cenoni e della settimana bianca più o meno negata.
Che ci siano più persone in giro a chiedere del cibo non è soltanto un'impressione personale, perché chi si occupa di dar da mangiare ai poveri lo sta dicendo da mesi. Associazioni di volontariato, parrocchie, comunità grandi e piccole di persone che di povertà, fame e miseria si son sempre occupati e per cui una pandemia fa, al limite, una differenza di quantità, ma sposta poco o nulla sul resto. Dare da mangiare a chi ha fame. Loro lo fanno da sempre, continueranno a farlo domani.
La differenza, almeno per il mio sguardo, è che stavolta non sono invisibili. Non come a marzo e ad aprile. Stavolta i poveri sono per strada, li vedi fermi fuori al supermercato, oppure trascinarsi con le loro "carte e cartuscelle", come avrebbe detto mio nonno, senza una meta. O almeno: con la meta del prossimo pasto, l'unico obiettivo possibile. I poveri sono pragmatici. Non so come spiegarmelo. Sarà per il lockdown "light" o per altre ragioni che non conosco. Fatto sta che adesso sono di più. Molti in più. E hanno fame. Si vede, te lo dicono. "Ho fame" mi ripete il ragazzo dalle labbra screpolate.
"Diamine, non ha la mascherina" sto pensando ancora tra me e me, osservando quel tozzo di pane malfermo, mentre sono alla ricerca di un modo decente per affrontare il dramma che ho davanti. Da un lato, sento di avere l'obbligo di non girare la faccia, dall'altro ho paura di contagiarmi. "Il punto è questo" mi ripeto tirando fuori le monete che ho in tasca.
E il punto è: chi non ha fame non riesce mai a mettersi dalla parte di chi ce l'ha. Anche se siamo persone civili, anche se partecipiamo alla raccolta fondi della Comunità di Sant'Egidio (a proposito, nella mia città, a Napoli, da inizio pandemia sono oltre 28mila le spese consegnate a chi ha fame), anche se ci impegniamo nelle reti di solidarietà dal basso, anche se siamo pronti a tirar fuori delle monete, la verità è che davanti a un povero in carne e ossa finiamo per concentrarci su noi stessi, sulle nostre reazioni, su ciò che ci potrebbe accadere.
In fondo, dentro di noi, crediamo che i poveri debbano innanzitutto uniformarsi al nostro modo di vedere le cose, di vedere la pandemia, il mondo, prima di sbatterci in faccia il loro essere poveri, il loro essere affamati, le loro labbra screpolate. E quindi dovrebbero rispettare innanzitutto il complesso sistema di regole a cui noi, civili e progressisti come siamo, ci stiamo sottoponendo anche per salvare loro dal virus. Quindi è come se dentro di me, adesso, qualcuno stesse sussurrando: caro povero, per favore, prima di chiedermi soldi o cibo, potresti per favore infilarti la mascherina?
Ma i poveri, a guardarli come ne sto guardando uno io adesso, mentre hanno fame e ti allungano quel tozzo di pane secco chiedendoti di riempirglielo (non mi sta chiedendo soldi, ma companatico), non corrispondono all'idea che ci siamo fatti di loro in questi anni. Anni di oblio e di rimozione della povertà dalle nostre vite, dalle nostre riflessioni, dall'azione dei nostri politici. Per certi versi molti di noi, cresciuti nel benessere, hanno in testa un'idea di povertà che corrisponde a quella veicolata come un'ombra dalle memorie familiari. Roba del secondo dopoguerra, dei primi anni Cinquanta. I poveri che hanno ispirato il neorealismo italiano, quelli alla "Miseria e nobiltà", i poveri contegnosi delle commedie di Eduardo De Filippo. Ma i poveri di oggi, in realtà, chi sono? Basterebbe rileggere il sarcasmo e le considerazioni classiste che accompagnano da sempre una misura come il reddito di cittadinanza (che avrà dei limiti e dei bug enormi, non lo discuto) per renderci conto del modo in cui la povertà viene affrontata nel nostro Paese.
Ogni giorno discutiamo e ci lanciamo in discussioni sui social per qualsiasi argomento, dai diritti civili alla disoccupazione, per la violenza sulle donne, ci indigniamo per le dichiarazioni dei sovranisti sui migranti e inorridiamo al cospetto dell'ottusità dei negazionisti (tutti temi importanti), eppure della povertà non parliamo mai. Al massimo, se siamo personcine davvero impegnate, diamo una scorsa ai sempre più rari articoli che i media dedicano a rapporti Istat sulla povertà e a quelli di altre organizzazioni.
Nel nostro immaginario i poveri esistono come categoria, come gruppo, come tavolata che circonda il Cardinale a Natale durante il pranzo organizzato dalla Caritas, come stanzette di cartone all'aria aperta, vuote al mattino e buie di notte. Probabilmente è il modo che abbiamo di esorcizzare la paura della miseria, perché in fondo tutti abbiamo paura di diventare come questo ragazzo dalle labbra screpolate col suo pezzo di pane vuoto. I poveri esistono come numero di pasti di cui si occupa chi fa volontariato, di buste della spesa. Per il resto, i poveri non parlano, non si raccontano, nessuno di noi li racconta. I poveri sono fantasmi. Si nascondono e la loro fame non merita il nostro sguardo.