Comincia a essere qualcosa in più di un dubbio: aver trasformato, in quasi trent'anni, il patrimonio culturale italiano in un prodotto da vendere a buon mercato, puntando ossessivamente ai numeri di biglietti staccati e turisti stranieri, si sta rivelando un fallimento. Sia chiaro: il fallimento di questa visione neoliberista – di un neoliberismo polveroso e superato ovunque nei Paesi sviluppati – era già evidente prima del coronavirus. La differenza è che il lockdown del nostro Paese sta impietosamente dimostrando, numeri alla mano, che quel progetto era fragile, ambiguo e si poggiava su una logica di svendita permanente dei nostri musei e siti archeologici, sulla retorica da imbonitori della grande bellezza tanto al chilo e su soggetti privati privi di scrupoli che hanno portato alla distruzione dei centri storici nelle nostre città d'arte. Tutto questo va cambiato e pensato sin da ora, se non vogliamo arrenderci alla irrecuperabile perdita del nostro immenso patrimonio.
Mettiamo per un attimo da parte ciò che ogni tanto, sommessamente, provano a ricordare coloro che hanno in mente il maltrattato articolo 9 della Costituzione italiana. Sono anni ormai che contiamo le battaglie perse sul fronte dei valori. Proviamo, dunque, a parlare la stessa lingua dei piazzisti che in questi anni hanno speculato sul nostro patrimonio culturale, predatori che oggi osservano il disastro da loro stessi creato, accusando il virus e chiedendo aiuti statali.
A tutti costoro va detto con chiarezza che il crollo del settore turistico nel nostro Paese, conseguente all'emergenza generata dal diffondersi del Covid-19, con le immagini di città come Firenze e Venezia al collasso, perché da troppo tempo trasformate in parco giochi per turisti e non per cittadini, ci racconta quanto sia stato un errore madornale immaginare che la cultura fosse un prosciutto da vendere al mercato della bellezza, mentre erano (sono) i cittadini, soprattutto i più giovani, ad esserne i veri destinatari. Aver perso di vista l'idea di una cultura votata alla formazione del cittadino e non alla massimizzazione di un profitto, oggi ci porta a discutere di un disastro che altrimenti non avremmo avuto o avremmo avuto in misura diversa.
Le città d'arte trasformate in parco giochi, dicevamo, così come il non aver regolamentato con serietà il fenomeno dei b&b selvaggi, della ristorazione e di tutto il resto dei servizi connessi al turismo, per tacer del ruolo quantomeno opaco svolto in questi anni all'interno delle nostre istituzioni dai privati, la costante esternalizzazione del personale che ha consentito sfruttamento e precarietà d'ogni genere, l'aver del tutto travisato il ruolo scientifico delle mostre d'arte per trasformarle in grandi circhi di attrazione turistica, sono tutte questioni che meritano un'ampia analisi e da cui bisognerà ripartire per riprogettare la visione del nostro patrimonio culturale in un'epoca che si annuncia come l'implosione della globalizzazione finora conosciuta.
Ieri, su Fanpage.it, il direttore della Pinacoteca di Brera di Milano, James Bradburne, sosteneva che non sarà un male dover tornare ad occuparci di più delle collezioni permanenti dei musei in futuro. Altrove, lo storico dell'arte Tomaso Montanari ha elaborato un decalogo di proposte su come ripensare il comparto culturale. Siccome siamo il Paese al mondo con il maggior numero di beni tutelati dall'Unesco, e prevedibilmente lo saremo ancora per un po', proviamo a immaginare la ricchezza che dal nostro patrimonio potrà derivarne in termini diversi da come abbiamo fatto finora.