La battaglia antisemita di Mussolini contro il jazz
Dopo settantasette anni, nell’ambito della XXIX edizione del Cinema Ritrovato in corso a Bologna, è tornato a far discutere il documento audiovisivo che riproduce il discorso del 19 settembre 1938 (restaurato dall’Istituto Luce) in cui il duce proclama la politica di separazione razziale. Una scelta che lo avvicina all’alleato tedesco, con la sua ossessione di pulizia etnica, e lo allontana dalle radici cristiane della nazione. Con la promulgazione delle leggi razziali, il Vaticano comincia lentamente a prendere le distanze dal regime fascista, costruendo un percorso autonomo che lo renderà protagonista nella lunga fase di agonia istituzionale e di rinascita democratica (1943-1948).
In pochi sanno che la legislazione si arricchiva nel 1942 di un provvedimento (legge numero 517 del 1942) disciplinante la “Esclusione degli elementi ebrei dal campo dello spettacolo”. Una decisione sostenuta in base all’affermazione che «il teatro, il cinematografo, la radio sono efficaci e popolarissimi strumenti di propaganda e come tali debbono essere posti al servizio delle nostre idee e dei nostri interessi».
Nell’articolo uno si vietava «l'esercizio di qualsiasi attività nel campo dello spettacolo a italiani ed a stranieri o ad apolidi appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati, nonché a società rappresentate, amministrate o dirette in tutto o in parte da persone di razza ebraica».
Mentre con l’articolo due si impediva «la rappresentazione, l'esecuzione, la proiezione pubblica e la registrazione su dischi fonografici di qualsiasi opera alla quale concorrano o abbiano concorso autori od esecutori italiani, stranieri od apolidi appartenenti alla razza ebraica e alla cui esecuzione abbiano comunque partecipato elementi appartenenti alla razza ebraica».
Nel terzo articolo si passava a regolamentare il settore cinematografico: «E' vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione dei film, soggetti, sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali, scientifiche ed artistiche, e qualsiasi altro contributo, di cui siano autori persone appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazione di doppiaggio o di postsincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica».
La legge, inoltre, prevedeva, all’articolo cinque, la costituzione di una commissione che aveva «il compito di provvedere alla compilazione ed all'aggiornamento degli elenchi di autori e di artisti esecutori appartenenti alla razza ebraica». Gli elenchi, naturalmente, sarebbero stati pubblici in modo da esporre i “nemici della nazione” al pubblico ludibrio.
Una delle principali vittime della lotta alla “propaganda” ebraica fu il Jazz. Il genere musicale aveva acquistato rilevanza in Italia e in Europa grazie al favore del pubblico che spingeva la stampa a cercare di comprendere e spiegare le origini della nuova moda jazzistica. Anzi si guardava con favore alla sua origine afroamericana e si sottolineava l’innovazione del rag-time, il tempo sincopato. L’allargamento dell’audience si rifletteva sulla composizione del palinsesto Eiar che cominciò a dedicare sempre più spazio alle novità d’oltreoceano.
Si generava, così, già nel 1934, una diatriba tra i sostenitori e i detrattori del jazz che rimaneva, per il momento, sul piano della critica musicale. Tuttavia, nella seconda metà del decennio, prendeva piede una tendenza che riconduceva il fenomeno a manifestazione tipica di società primitive e barbare: «una vecchia civiltà in decomposizione che non conosce più valori spirituali e professa soltanto il culto della vita materiale», così si leggeva in una lettera indirizzata al direttore del “Radiocorriere”. Una musica incitante all’amore libero e selvaggio che sarebbe stato veicolo di inquinamento della sana e forte gioventù italiana: «una musica grassa, una musica che stempera il midollo spinale, una musica che suggerisce mollezze e lussurie».
Nel biennio 1935-1936 l’insofferenza al jazz si fondeva all’avversione verso alcuni aspetti delle società capitalistiche occidentali, in particolare quella americana che veniva rappresentata, per esempio nelle riviste, come dominata dal mito del denaro, popolata da gangster e donne di facili costumi, in cui la giustizia era fasulla e corrotta. La battaglia contro il ritmo sincopato si saldava con la volontà del regime di deoccidentalizzare gli italiani tendendoli lontani da qualsiasi manifestazione che potesse richiamare l’american way of life.
Nel 1938 il “Popolo d’Italia” (il quotidiano fondato da Mussolini), iniziava una campagna per l’autarchia in campo musicale. I principali bersagli erano soprattutto i simpatizzanti del genere, affetti da «snobismo pseudo-artistico» e definiti spregiativamente «gagà». I balli ispirati a quella musica, del resto, erano considerati incivili, degni solo di essere interpretati da odiosi «negri».
Nel 1939, quando ormai la legislazione razziale era entrata in vigore, il “Popolo d’Italia” tornava ad attaccare congiungendo l’opposizione al jazz con il proselitismo antisemita: «il giudaismo mira contemporaneamente ad accumulare denaro e ad abbrutire l’umanità… la musica moderna di jazz è una delle armi giudaiche più forti e più sicure. Con quattro note musicali… i giudei d’oltreoceano sono riusciti a distruggere il senso artistico di molta gente e ad accumulare milioni e milioni; ora però è tempo che il popolo italiano allarghi la sua sacrosanta campagna razziale anche in questo campo…».
Alla fine l’ala radicale del Partito nazionale fascista si imponeva anche su questo tema: oltre alla diminuita importazione di musica americana si poneva la questione di «italianizzare testi e musiche» per la difesa della razza ariana. Nel 1942, con un grande battage pubblicitario, veniva annunciata la concessione della cittadinanza italiana al Trio Lescano – il gruppo canoro composto da tre sorelle olandesi di madre ebrea – e la successiva iscrizione al partito fascista, avvenuta il 7 aprile 1943 (ovvero circa quindici giorni prima dell’arresto di Mussolini).
La Storia, però, pretende le sue rivincite chiamando in causa i diretti protagonisti. Il quarto figlio del duce, Romano (padre di Alessandra), fu un noto pianista jazz. Imparò ad apprezzarla proprio negli anni Trenta quando la dittatura cominciava a censurarla. E come se non bastasse uno dei suoi maestri fu uno «sporco negro» il cui nome era Duke Ellington.