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L’umanità semplificata di Antonio Rezza

Intervista ad Antonio Rezza, voce, corpo e pensiero tra i più originali e innovativi della ricerca teatrale contemporanea, attualmente in scena con “Fratto X”, punto d’approdo ideale di tutti i suoi lavori precedenti, firmati insieme all’artista Flavia Mastrella.
A cura di Luca Iavarone
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Per quanto ci si sforzi, è impossibile sfuggire al proprio ‘fratto', alla semplificazione che, implacabile, annichilisce ogni vitalismo. Questo perché a dispetto del nostro io, al di sotto di lui, si cela sempre un ‘doppio', che, con la complicità di una mannaia algebrica insospettabile, segno di frazione, letto d'ospedale o linea dell'orizzonte che sia, è pronto ad annientarci e a scomparire con noi: a semplificarci, per l'appunto. Quando Mario, che aspira a confondersi tra le file di un'agognata umanità omonima, proverà a scappare da questo meccanismo crudele, abbandonando la scena e lasciando di sé solo una lontanissima e indistinta traccia sonora, resterà intrappolato, nemmeno a dirlo, nel cesso, e nessuno sarà più in grado di distinguere la sua disperata richiesta d'aiuto.

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Il nuovo lavoro teatrale di Antonio Rezza e Flavia Mastrella “Fratto X” comincia così, prendendo le mosse da una profonda riflessione sull'umano, frazionato, frammentato, scomposto. Una serie di quadri, angolature diverse della stessa visione, come mai prima d'ora, si sommano in uno spettacolo unitario e coerente, indiscutibilmente riuscito nella sua complessità.  Due "fasci di luce" (una coppia di teli fissati alle estremità del palco) offrono l'habitat, anch'esso doppio e speculare, in cui si muove la maschera-non-maschera di Rezza. Se in passato i suoi personaggi venivano incorniciati dai tagli delle sculture di scena (concetti spaziali, dunque, paradossalmente, negazioni della cornice), delineando, così, i confini delle sue maschere a volto scoperto, questa volta lo spazio, l'universo, si piega e si ripiega al volere del corpo dell'attore, e così, a sua volta, lo avvolge in una moltitudine di dimensioni sovrapposte e parallele.

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Lo spazio esplorato dal genio di Rezza non è però solamente quello corporeo del visibile sulla scena, ma è anche e soprattutto quello incorporeo e intangibile, ma non per questo meno presente, della voce e della luce. L'essersi costruito negli anni un proprio tragico Charlot dagli infiniti timbri vocali gli ha permesso, infatti, di predisporre il pubblico ad un ascolto complice ed attento, al punto da concedergli il privilegio di abbandonare la scena per decine di minuti: il teatro, a quel punto, è pieno solo della sua voce, sempre più lontana e indistinguibile tra il respiro e le risate dei presenti. Un colpo di teatro contemporaneo estremamente raffinato, paragonabile forse solo alle conquiste della musica d'arte più recente, quando, nella ricerca dello sforzo partecipativo estremo degli ascoltatori, si è giunti alle soglie dell'infinitamente udibile; uno scenario che, a pieno titolo, dialoga e compete con le conquiste sonore dei più tecnologici spettacoli di Ronconi (ne abbiamo fatto cenno qui).

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Ma la voce in “Fratto X” è anche dissimulata, contraffatta, con il proprio doppio, e infine prestata e scambiata con degli altri da sé. È il caso del monologo a tre, capolavoro della piéce, un pezzo di grande complessità e bravura che ha i numeri per diventare una perla da repertorio. Qui il gioco è portato alle estreme conseguenze, oltre ogni aspettativa metateatrale, perché alla fine lo stesso spettatore è costretto di fronte a un beffardo dilemma: continuare a guardare la scena ormai vuota o considerare il fuori scena?

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Infine, come abbiamo anticipato, un ultimo elemento intangibile si fa strada nell'esplorazione dello spazio: la luce. Rezza, nell'ultimo quadro, prende a brandire uno specchio ovale con cui illumina i volti di alcuni spettatori che, grazie (ancora una volta) alla sua voce in prestito, divengono i protagonisti dell'ultima storia. Un cerchio che si chiude alla perfezione sul leitmotiv della “spensieratezza”, che ad inizio spettacolo andava “stroncata alla nascita”, e ora si è trasformata nell'ossessione monomaniacale di un malcapitato spettatore che ripete: “ma ancora esiste la spensieratezza?”. Giunge così a compimento l'operazione semplificativa estrema, la soluzione finale algebrica costruita da Rezza (nei panni, qui, di un cavaliere medieval-futurista): sottoporre gli stessi spettatori, e dunque l'umanità tutta, all'impietosa ineluttabilità del ‘fratto'. Un genocidio coerente con la limpida logica esponenziale dell'impianto, compiuto con la più seducente delle armi, lo specchio, disvelatore del ‘doppio' tramite il ponte scenico e concettuale del "fascio di luce". Lo ‘specchio ustorio parlante' di Rezza/Mastrella è perciò l'oggetto simbolico più adeguato a riassumere, veicolare e amplificare gli elementi costitutivi di "Fratto X": il doppio, la voce, la luce, il ‘fratto'.

Viene da chiedersi, a chiusura di sproloquio, se quello a cui abbiamo assistito sia teatro, nelle sue forme più perfette, frutto di una rara calibratura delle possibilità del corpo, della voce e dello spazio, o se non sia, come Rezza e Mastrella sostengono ormai da anni, arte contemporanea prestata ai luoghi del teatro. Nel dilemma, prestiamo un occhio al palco e l'altro al fuori scena.

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