L’insopportabile snobismo del teatro italiano che critica il monologo di Pierfrancesco Favino
Che lo snobismo fosse la foggia preferita dal mondo del teatro italiano è cosa arcinota e di per sé poco interessante. Ciò che colpisce però, e che ci spinge a questa riflessione, è la reazione scomposta e irritata, espressa via Facebook da alcuni artisti e addetti ai lavori, di fronte alla performance di Pierfrancesco Favino durante la finale del Festival di Sanremo. Favino ha infatti avuto l’ardire di portare nel teatro nazionalpopolare per eccellenza, nel tempio della canzone italiana – peraltro in clima di piena campagna elettorale -, un brano tratto da “La notte poco prima delle foreste” del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès.
Ben 4 minuti di full immersion nell’universo simbolico di un autore che in Italia, come ha fatto notare Renzo Francabandera, prima delle 22:45 di sabato 10 febbraio non era conosciuto da più di mille persone, per essere ottimisti, e che è stato “sbattuto in faccia” a quasi 12 milioni di italiani. Aggiungo inoltre che i testi di Koltès, alcuni di essi di una profondità siderale, sono purtroppo introvabili anche per gli estimatori della prima ora, perché finiti fuori edizione insieme ad altri preziosi volumi del catalogo della casa editrice Ubulibri. Per cui un’operazione veramente raffinata.
Ma andiamo a vedere gli argomenti principali dei detrattori di Favino: la durata della performance (solo 4 minuti per approcciare un autore come Koltès?); l’interpretazione, commossa e poggiata sulla scelta – secondo noi invece vincente – di utilizzare un accento arabeggiante per dare sostanza al monologo interiore o al dialogo (fittizio?) tra sé e l’altro da sé, cioè il diverso, l’emarginato. Cosa che ha irritato persino Gasparri, noto studioso di drammaturgia contemporanea, il quale ha lapidariamente twittato: “Penoso”. Ma più in generale, le critiche mosse a Favino e alla direzione del Festival partono da un senso di disappunto per aver “dato in pasto alle masse” un autore come Koltès che è allo stesso tempo crudo e sofisticato, concreto e metaforico, tagliente e divagante. In altre parole, un autore “nostro”, un alfiere della Comunità teatrale, di chi ha studiato, di chi segue e ama la prosa: un autore non adatto al volgo, troppo distratto e impreparato.
Al di là dei giudizi sull’interpretazione e sulla durata, tutti legittimi, è proprio su quest’ultimo punto però che sta il grande malinteso. E cioè sull’idea che la Cultura debba essere appannaggio di pochi e che non debba contaminarsi con la cultura (con la c minuscola) dei Barbari, della massa come si diceva una volta, del mainstream come si dice oggi. Insomma c’è chi piuttosto che vedere in questa operazione un autentico goal in rovesciata, per usare una metafora pop, una prodezza da grande fuoriclasse, ha visto un tradimento delle (presunte) prerogative della cultura alta. E cioè quella di auto custodirsi dentro una teca dorata, al riparo dei Lanzichenecchi. E poco importa se milioni di spettatori hanno avuto la possibilità di ascoltare in tv una parola che attraverso la poesia “urtava” direttamente su fatti di cronaca, su temi del presente, invitando a una sola riflessione e cioè che l’altro, sono io; l’emarginato, sono io; il diverso, sono io. È solo questione di circostanze storiche e punti di vista.
Ma il problema è un altro. Chi nel 2018 crede ancora che la cultura debba essere elitaria, escludente, forse non ha ancora ben chiaro che così, muore. La sfida del presente e del futuro per chi, come noi, si occupa di cultura è esattamente questa: fare in modo di affilare tutti gli strumenti possibili, agire come un virus del sistema, quasi alla Matrix, per portare il proprio seme anche là dove il terreno sembra solo sabbia arida. È esattamente lì che chi opera nel campo della cultura ha il suo da fare. Il resto sono solo chiacchiere da foyer.