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L’incredibile storia del caffè espresso: dal ‘500 ad oggi la bevanda più buona che ci sia

Non tutti sanno che la prima città italiana a importare la bevanda fu Venezia nel ‘500. E che solo con la Grande Guerra gli italiani si avvicinarono al piacere del caffè quotidiano. Così si diffusero i primi bar nel quartiere Testaccio di Roma, mentre a Milano nascevano le prime macchine per l’espresso. Che solo negli anni ’50, durante il miracolo economico, riuscì a persuadere gli abitanti del Sud a rinunciare al più corposo caffè napoletano.
A cura di Laura Di Fiore
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La Pasticceria Gloppe allo Champs-Élysées, dipinto di Jean Béraud, 1889, Museo Carnavalet
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In coda al bar di una splendida Londra o New York, quello che ci conforta davanti ai caffè più o meno lunghi che vengono consumati intorno a noi in enormi bicchieri è sapere che, una volta arrivato il nostro turno, potremo serenamente ordinare un espresso. Lo stesso nome, mantenuto nella nostra lingua, richiama non tanto una bevanda, quanto un modo di prepararla, che viene internazionalmente riconosciuto come specificamente italiano. Tuttavia, come ci racconta lo storico Jonathan Morris, la specialità italiana dell’espresso è relativamente recente. Certo, la storia del caffè in Italia è molto più antica.

Venezia è stata una delle prime città a importare la bevanda in Europa nella seconda metà del ‘500 e qui il primo caffè, inteso come luogo di socialità in cui era possibile consumarla, venne aperto nel 1683. Nel secolo successivo i gran caffè, come il "Florian" nella stessa Venezia e il caffè "Greco" a Roma, furono luoghi di scambio culturale, mentre nei caffè torinesi ottocenteschi si giocò buona parte delle vicende politiche legate all’unificazione nazionale. E tuttavia, nulla distingueva in maniera sostanziale i caffè serviti in Italia da quelli consumati in luoghi analoghi nel resto d’Europa.

Intanto, fu all’avvio del nuovo secolo, tra il 1900 e il 1913 che il consumo di caffè conobbe in Italia un’improvvisa impennata, che portò la media del consumo dalle 40 alle 80 tazze annue. Per il quartiere romano del Testaccio è documentato per l’epoca un consumo giornaliero di caffè, accompagnato da pane e latte per colazione, anche nell’ambito della classe operaia, sebbene in questi casi si trattasse perlopiù di surrogati, come orzo tostato o cicoria.

Sarebbe stata però la Prima Guerra Mondiale a iniziare al piacere del caffè quotidiano una grossa fetta di italiani, ovvero i soldati, a cui veniva distribuita una razione giornaliera.L’aumento del consumo di caffè negli anni successivi, assieme a una maggiore inclinazione a condividerne il piacere al di fuori delle mura domestiche, richiedeva però un metodo più efficace ed economico che consentisse di preparare contemporaneamente più tazze singole, prodotte espressamente (da qui il nome) per ogni avventore.

Le innovative macchine dei milanesi Bezzera e Pavoni introdussero allora un nuovo tipo di produzione, che si rivelò particolarmente adatto ai bar in stile americano. Qui il caffè non veniva servito a clienti seduti, ma ad avventori che potevano velocemente consumarlo al bancone stando in piedi, ragion per cui i primi luoghi di questo genere, come il Caffè Manaresi a Firenze, venivano definiti “Caffè dei Ritti”.

La vera e propria rivoluzione per l’espresso sarebbe però arrivata nel 1947 e avrebbe avuto l’aspetto e la dolcezza della crema. Il milanese Achille Gaggia brevettò una macchina che introduceva l’innovativo modello a pistone al posto di quello a vapore e che creava sulla bevanda quel sottile strato di crema diventato poi caratteristica dell’espresso. Nasceva così per la prima volta uno stile distintivo del caffè italiano, che lo rendeva diverso dalle varietà della nera bevanda preparate altrove, in Europa e nel mondo. E ancora, venne a consolidarsi una cultura dell’uscire a prendere un caffè, che adesso era radicalmente diverso da quello preparato in casa.

Fino al 1950, comunque, a bere caffè al bar, andando al lavoro o a fine giornata, rimasero soprattutto gli uomini della classe medio-alta che vivevano in contesti urbani. Alte percentuali di consumo si registravano ad esempio nella capitale, mentre meno diffusa era l’abitudine di bere un caffè fuori casa al Sud Italia e nelle zone rurali. Una vera e propria cultura di massa del caffè risale all’epoca del miracolo economico, che vide un massiccio fenomeno di inurbamento e il fiorire di bar in cui era anche possibile guardare le prime trasmissioni televisive. E fu allora che bisognò ingegnarsi per conquistare gli amanti del caffè nel Sud Italia, abituati a una versione peculiare (tuttora famosa) che, grazie alla maggiore concentrazione nella miscela di Robusta accanto all’Arabica, risultava più corposa, scura e amara, al punto da esser servita – come ancora accade in storici bar napoletani  – già zuccherata.

Negli stessi anni intanto l’espresso varcava i confini nazionali, alla conquista dei mercati europei e statunitensi, dove faceva la sua comparsa l’espresso romano. E se inizialmente l’aggiunta del latte si rivelò un fattore-chiave – nelle versioni cappuccino e caffelatte – sarebbe stato in seguito nella sua veste pura che l’espresso si sarebbe ritagliato un posto speciale all’estero, diventando un’icona globale di italianità.

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Nata nel 1979, vivo a Napoli e ho due gemelli. Sono ricercatrice in storia, (al momento) a Bologna, e ho pubblicato due monografie: Alla frontiera. Confini e documenti di identità nel Mezzogiorno continentale preunitario (Rubbettino 2013) e L’Islam e l’impero. Il Medio Oriente di Toynbee all’indomani della Grande guerra (Viella 2015).
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