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Opinioni

Joël Dicker torna con L’enigma della camera 622: “Un altro scrittore dopo Harry Quebert”

Intervista allo scrittore svizzero Joël Dicker da oggi in tutte le librerie italiane con un nuovo appassionante romanzo: “L’enigma della della camera 622” (La nave di Teseo). Tra triangoli amorosi, cospirazioni internazionali e colpi di scena, l’autore del best seller internazionale “La verità sul caso Harry Quebert” ci dice la sua su come ha vissuto il lockdown e sui segreti per un thriller perfetto.
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"Il segreto di un buon thriller? Giocare con il lettore, non manipolarlo". Il ritorno in libreria di Joël Dicker con il nuovo romanzo "L'enigma della camera 622" (La nave di Teseo, pp. 648, 22 euro), già best seller mondiale con "La verità sul caso Harry Quebert", è di quelli straripanti, poderosi, che lungo oltre seicento pagine accompagnano il lettore per mano nei meandri di una storia dal ritmo serrato e imprevedibile, attraverso un gioco di specchi che ricordano da vicino, ma non troppo, quelli de "Il libro dei Baltimore", "La scomparsa di Stephanie Mailer". "L'enigma della della camera 622" esce oggi 11 giugno in Italia, paese in cui la pubblicazione segue da vicino quella di Francia, Svizzera e Belgio, dove è subito schizzato in vetta alle classifiche dei libri più venduti. Tra colpi di scena, personaggi dalla doppia o tripla verità, giochi di potere, segreti di famiglia, inganni, tradimenti e gelosie, il romanzo di Dicker è congegnato con diabolica perfezione, in cui nulla e nessuno sono veramente come appaiono.  Quindici anni dopo un omicidio insoluto avvenuto nella camera 622 del Palace de Verbier, lussuoso hotel sulle Alpi svizzere, uno scrittore di nome Joël non può fare a meno di farsi catturare dal fascino di quel caso irrisolto, e da una donna avvenente e curiosa, anche lei sola nell'hotel, che lo spinge a indagare su cosa sia veramente successo, e perché.

La prima cosa che voglio chiederti, visto che gli hai dedicato il romanzo, riguarda Bernard de Fallois. Ti va di ricordarlo brevemente per i lettori italiani?

Bernard de Fallois è stato il mio editore. È stato molto importante per me, perché è stato lui a permettermi di assumere la mia identità di  scrittore. L’ho incontrato nel 2011, scrivevo da anni,  mi sentivo uno scrittore… Scrivevo tutti i giorni dieci ore al giorno; scrivere era la mia vita ma non osavo dirlo a nessuno perché non sentivo di avere la legittimità di scrittore. Quando ho incontrato Bernard e mi ha proposto di pubblicare il mio primo romanzo "Gli ultimi giorni dei nostri padri", ho sentito attraverso il suo sguardo e la sua percezione che potevo finalmente assumere l’identità di scrittore apertamente, essere uno scrittore anche davanti gli altri. Bernard è stato un grandissimo editore, uno dei più gradi editori degli ultimi cinquant’anni della letteratura francese. È stato a capo di molti grandi gruppi editoriali. Era nato nel 1926, quando l’ho incontrato, nel 2011, aveva 85 anni.

L'enigma della camera 622 inizia con uno scrittore che arriva in quest'albergo dopo la morte del suo editore, il cui nome è Joël. Quanto c'è di te in questa storia?

Non molto. È vero, c’è un personaggio che si chiama Joel e che è uno scrittore. Ho inserito questo personaggio più per giocare con il lettore, come uno specchio. È un gioco tra quello che il lettore può  immaginare e la realtà. Quando si è lettori a volte si pensa di stare nella testa dello scrittore ma non è sempre così; noi in fondo leggiamo il romanzo, ma ciò che lo scrittore dice o fa nel romanzo non è per forza la sua percezione della realtà. Avevo voglia di giocare un po’ con questo. Dunque Joël non sono io.

Ancora uno scrittore protagonista del tuo romanzo, come in "La verità sul caso Harry Quebert". Quanto è diverso questo libro – a parte la trama – dal tuo primo grande successo?

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È differente soprattutto perché è un romanzo, quindi una finzione, ma all’interno di questa finzione ci sono degli elementi in cui racconto la vera storia del mio incontro con Bernard de Fallois  e della nostra avventura letteraria insieme. In questi momenti non c’è finzione, siamo nella realtà. La frontiera della finzione è superata talvolta da questi momenti di verità.

Per la prima volta un tuo romanzo è ambientato nelle Alpi Svizzere. Cosa aggiunge questo luogo alla tua storia e perché è importante la Svizzera?

La Svizzera è importante per me, ci sono nato e ci abito e avevo voglia di scrivere un romanzo che fosse ambientato in Svizzera. Prima, i miei romanzi si svolgevano quasi tutti negli Stati Uniti, ora volevo ambientare il romanzo in Svizzera per rivendicare la mia identità di scrittore svizzero.

Triangoli amorosi, colpi di scena, intrighi internazionali. In seicento pagine che si leggono tutte d'un fiato: quali sono i segreti per un thriller perfetto?

Non so se ci sono dei segreti o una ricetta per un thriller perfetto. Penso che la cosa più importante sia dare al lettore degli strumenti perché si diverta. È come un gioco, il romanzo esiste perché deve essere un gioco tra il lettore e l’autore, non è un’esperienza unilaterale ma condivisa, non è l’autore che decide tutto e che manipola il lettore. È veramente un gioco che si fa insieme.

La traduzione italiana è davvero molto ben fatta. Quanto devi del tuo successo e quanto importanti sono per te i traduttori?

Grazie mille per questa domanda sulla traduzione, i traduttori sono molto importanti, dobbiamo ringraziarli se adesso stiamo facendo questa intervista. È ancora più importante per me perché il traduttore italiano dei miei primi quattro romanzi è morto un po' di tempo fa. Ricordo con commozione Vincenzo Vega. Questo romanzo è particolare perché l’ho fatto con una nuova traduttrice (Milena Zemira Ciccimarra), è veramente brava e sono molto onorato di averci lavorato. Approfitto di quest'intervista per salutarla e ringraziarla per l’incredibile lavoro, la traduzione effettivamente è molto bella. Senza il traduttore, il romanziere non può esistere in altre lingue, siamo una squadra, romanziere e traduttore, una squadra a due, e abbiamo davvero bisogno l’uno dell’altro per andare avanti.

Forse un po' scioccamente in Italia molti editori e scrittori si stanno interrogando in che modo il coronavirus entrerà nelle storie che saranno pubblicate nel prossimo futuro. Ma la letteratura si è già occupata del virus, anche se non aveva questo nome. Tu cosa ne pensi? Potresti scrivere una storia ambientata durante il lockdown che ci mostri il lato oscuro della pandemia?

Si, è vero, la situazione del coronavirus è stata strana e molto particolare, non ho trovato in questi mesi una fonte di ispirazione, al contrario, mi ha destabilizzato come la finzione sia stata superata dalla realtà. Non avrei mai creduto agli avvenimenti che sono successi, momenti che non abbiamo mai vissuto prima. É una situazione molto ansiogena: vedere le persone in difficoltà, persone che hanno vissuto situazioni difficili, gente che condivide piccoli appartamenti, la sofferenza dei malati, dei morti e anche la violenza coniugale. Non ho trovato niente di piacevole e non sono stato ispirato da nessuna di queste cose. Spero che non ci sarà molto da raccontare del coronavirus, lo stesso confinamento non è tanto appassionante; i piccoli commercianti sono stati obbligati a chiudere per due mesi e dovranno subirne ancora gli effetti, bisogna essere coscienti della situazione.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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