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Jack Kerouac: 50 anni fa moriva l’autore di “Sulla Strada”, padre della Beat Generation

Il nome di Jack Kerouac è indissolubilmente legato a tutto ciò che la Beat Generation, non soltanto in termini strettamente letterari, ha rappresentato. Ma fu lui stesso, ad un certo punto della vita, a rifiutare quell’etichetta: “sono uno strano solitario pazzo mitico”, disse di sé qualche anno prima della morte avvenuta esattamente cinquant’anni fa, il 21 ottobre del 1969.
A cura di Federica D'Alfonso
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Esattamente cinquant'anni fa, il 21 ottobre 1969, moriva Jack Kerouac.
Esattamente cinquant'anni fa, il 21 ottobre 1969, moriva Jack Kerouac.

“Dobbiamo andare e non smettere mai di andare finché non ci arriviamo”. “Dove stiamo andando, amico?”, “Non lo so ma dobbiamo andare”. Uno scambio di battute che, da solo, racchiude tutto il senso di un’epoca: quella che fu affamata di libertà, noncurante delle convenzioni sociali e protesa verso sempre nuove, e a volte eccessive, sperimentazioni. L’epoca della quale Jack Kerouac, scomparso il 21 ottobre del 1969, fu iniziatore, cantore e critico. Un’epoca, quella beat, che a distanza di cinquant'anni dalla sua morte è ancora indissolubilmente legata al suo nome.

21 ottobre 1969: la morte

Dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo “Vanità di Duluoz”, nel 1968, lo scrittore era già estremamente debilitato dall’abuso di alcol e droghe. Nel febbraio dello stesso anno il suo punto di riferimento principale venne a mancare: la morte di Neil Cassidy, amico e fonte d’ispirazione per il romanzo “Sulla Strada”, segnò il punto di non ritorno. Qualche mese dopo la lunga serie di risse, sbornie frequenti e trip misero definitivamente alla prova il suo fisico, che non resse: il 20 ottobre il suo fegato cede, rendendo vani tutti i tentativi di trasfusione e di rianimazione. Jack Kerouac muore alle 5:15 del mattino del 21 ottobre, all’età di quarantasette anni.

Jack Kerouac e la Beat Generation

Jack Kerouac insieme a Peter Orlovsky, Alice Neel, Allen Ginsberg, Richard Bellamy e Jonas Mekas.
Jack Kerouac insieme a Peter Orlovsky, Alice Neel, Allen Ginsberg, Richard Bellamy e Jonas Mekas.

Perché per me l'unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano… bruciano… bruciano come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno ooohh…

Anche se universalmente riconosciuto come il padre della Beat Generation, Jack Kerouac ebbe sempre un’idea molto particolare, critica, nei confronti di tutto ciò che l’aggettivo “beat” ha poi mosso negli anni: fu lui il primo ad utilizzarlo, ad avere la visione che da lì ad un decennio porterà quella giovane generazione a definirsi tale o comunque a riconoscersi nelle ispirazioni letterarie di altri scrittori come Burroughs e Ginsberg (che Kerouac aveva conosciuto a metà degli anni Quaranta), e fu sempre lui a scriverne il manifesto.

Perché quando uscì, nel 1957, “Sulla Strada” apparve a tutti come la sintesi perfetta di istanze culturali, spirituali e sociali che già da tempo si muovevano nel cuore degli Stati Uniti d’America. E bastò qualche anno affinché quella sintesi divenisse punto di partenza anche di altro: dei movimenti giovanili, della controcultura, e di quella carica politica che pian piano attecchì su chi aveva letto i libri degli scrittori “beat”.

Fra loro, Kerouac fu senz’altro il più “autentico”, stando anche al suo personale punto di vista, se non altro perché fu dalla sua mente che uscì per la prima volta questa parola che doveva richiamare, per lui, quella spinta religiosa non convenzionale che lo aveva portato a pensare alla sua scrittura e alla vita stessa in termini di “beatitudine”. Kerouac stesso racconterà:

Fu da cattolico […] che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d'Arco a Lowell, Mass., e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola Beat significava beato.

Beatitudine che passa, nei suoi romanzi, attraverso una prosa spontanea contaminata dal ritmo di jazz e bebop, ininterrotta, che farà scuola per il decennio successivo. Alla fine del quale però, proprio Kerouac rifiuterà l’etichetta, ormai divenuta tale, di scrittore “beat”: a questa, in più occasioni, lo scrittore sostituirà la definizione di “strano solitario pazzo mistico cattolico”.

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