"Il Sud tra dieci anni sarà un guscio vuoto, serve un piano di investimenti straordinario per la formazione". È il grido d'allarme di Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea, dopo la presentazione del Rapporto 2020 AlmaLaurea sul Profilo e sulla Condizione Occupazionale dei laureati. Che quest'anno, tra luci e ombre, dovute soprattutto alle previsioni negative sull'impatto dell'emergenza coronavirus nel Paese, presenta alcuni aspetti positivi, come una maggiore regolarità degli studi, l'abbassamento dell’età alla laurea, più tirocini curriculari. Nel 2019 tendenziale incremento anche per il tasso di occupazione, rispetto al 2014: a un anno dal titolo +8,4 punti percentuali per laureati di primo livello e +6,5 punti percentuali per quelli di secondo livello. Ma a preoccupare, come dicevamo, è il futuro dopo l'arrivo del coronavirus. L’indagine parziale marzo-giugno 2020 registra, infatti, un calo di entrambe le quote: rispettivamente -9,0 e -1,6 punti percentuali.
Partiamo da un dato che il rapporto evidenzia come positivo: il modo in cui l'Università ha retto alla prova della didattica a distanza.
Rispetto al sistema scolastico, possiamo certamente dire che l'Università ha reagito meglio. Naturalmente ciò è dovuto a diversi fattori. Prima di tutto la diversa composizione ed età degli allievi. La scuola è una vittima illustre da tempo ed è arrivata impreparata a questo shock. Tuttavia bisogna tenere conto che realizzare didattica a distanza con ragazzini delle elementari, medie e in alcuni casi anche delle superiori è cosa del tutto diversa dal doverla svolgere con studenti maggiorenni e autonomi. In ogni caso, il nostro rapporto evidenzia come il 74,5% degli studenti ha seguito le lezioni, il 40% ha dato regolarmente esami e soltanto (si fa per dire) il 17% ha avuto difficoltà tecniche. Solo il 2% di lezioni sono state sospese o annullate. Tutti piccoli segnali positivi, che ci dicono di una capacità di resistenza dell'università italiana: insomma, qualcosa funziona, nonostante tutto.
Dov'è che le nostre università funzionano e dove funzionano meno.
Ciò che emerge dal rapporto è la presenza di un personale docente importante, talvolta molto qualificato, capace di creare una relazione con l'allievo in grado di incidere sul suo percorso di vita e di formazione. Ciò che resta davvero critico, come in tanti altri settori della vita sociale ed economica del Paese, è il livello strutturale e infrastrutturale dei nostri atenei. Gli studenti si dichiarano complessivamente insoddisfatti di biblioteche, laboratori, attrezzature. Molto meglio va con i loro docenti.
Sembra la solita Italia degli eroi, che reagisce alla grande nell'eccezionalità, ma nell'ordinario non riesce a offrire le stesse efficaci risposte.
Esattamente.
In questi mesi che idea si è fatto del funzionamento della didattica a distanza?
Che è stata assolutamente necessaria in uno stato di emergenza come quello che abbiamo attraversato, ma che non è la risposta a tutto. Qui c'è in gioco il futuro del nostro Paese e bisogna esser chiari. Se crediamo che il sistema universitario debba soltanto fornire competenze e creare impiegati e tecnici, allora può andar bene immaginarsi un futuro di didattica a distanza. Ma se lo scopo, come auspico, è quello di formare e promuovere conoscenza (ciò che serve davvero all'Italia) allora è un'illusione credere di poter risolvere tutto online.
Quali le criticità più significative che il vostro rapporto fa emergere?
Va premesso che il nostro Paese nel complesso è penultimo in Europa per numero di laureati, appena prima della Romania. In Italia siamo al 27,8% contro una media europea del 40%. Questa è la principale questione. Che naturalmente sconta differenze territoriali enormi. Un laureato su quattro del Sud, nel nostro Paese, non si iscrive in un ateneo del Sud. E la metà dei laureati del Sud non lavorerà in un'azienda del Sud. Ciò significa, in proiezione, un impoverimento generale del tessuto sociale e culturale del meridione d'Italia con tutto ciò che può rappresentare. Con l'arrivo del Covid-19 c'è il rischio di assistere, come è già nei fatti, a un calo delle immatricolazioni. Per il Sud rappresenterebbe un ulteriore colpo mortale. Siamo davanti a una situazione drammatica che va affrontata urgentemente.
Come?
Andrebbe realizzato un massiccio piano di investimenti che garantisca il diritto allo studio dei giovani. Dobbiamo reagire alla prospettiva del fallimento. Ogni giovane che decide di interrompere il proprio percorso formativo e non iscriversi all'università rappresenta un fallimento per il Paese.
L'altra criticità che emerge dal Rapporto 2020 è la condizione delle donne.
Le donne italiane laureate sono mediamente più colte, più mature, più esigenti. Eppure scontano, in campo lavorativo, un minor livello retributivo e minori capacità di carriera. Con il coronavirus, poi, il carico di lavoro domestico delle donne è aumentato.
Quali le conseguenze di queste criticità per il sistema-Paese?
Che il 5,8% dei laureati italiani va all'estero. Queste donne e uomini (molto spesso del Sud) sono la metafora del suicidio perfetto del nostro Paese. I contribuenti sostengono il sistema universitario con le tasse, quindi formiamo con le nostre risorse, i nostri docenti, le nostre strutture delle persone che poi andranno a costo zero ad arricchire con le loro competenze, non valorizzate dal sistema produttivo, altri Paesi. E così finiamo per importare badanti ed esportare laureati. Non credo ci sia bisogno d'aggiungere altro.