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Intervista al compositore Giacomo Manzoni, Leone d’oro tra critica e avanguardia

Intervista al compositore e critico milanese, una delle voci più autorevoli e prolifiche della musica contemporanea dal dopoguerra ad oggi.
A cura di Luca Iavarone
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Giacomo Manzoni (foto tratta dall'archivio storico de l'Unità)

La dedizione assoluta a un'ideale di ricerca pura e incondizionata e l'impegno politico sono state le costanti del percorso, umano prima ancora che artistico, di Giacomo Manzoni. Intellettuale di primissimo piano dal dopoguerra ad oggi, Manzoni si è affermato come una delle voci più autorevoli e prolifiche nel dibattito italiano sulla nuova musica. Leone d'oro alla carriera per l'attività compositiva cinquantennale, per anni critico musicale de l'Unità, ha tradotto in italiano Schönberg, Brecht, Thomas Mann e la maggior parte degli scritti musicali di Adorno. Approdo obbligato e ricorrente della sua ricerca è stato il teatro musicale con opere come La sentenza (1960), Atomtod (1964), Per Massimiliano Robespierre (1974) e Doktor Faustus (1988).

Manzoni prende le mosse, negli anni '50, dallo strutturalismo, ovvero quello che in musica è stato il rigoroso serialismo post-schönberghiano, per poi distaccarsene gradualmente, esplorando anche possibilità più liberamente espressive e, nell'ultimo periodo, maggiormente liriche. Affiancando alla composizione una cospicua attività di critico e saggista, ha sferrato di consueto attacchi al sistema musicale italiano, colpevole di aver estromesso la musica contemporanea dall'attività culturale.

Ritengo che nonostante l'espulsione della musica di ricerca il compositore debba continuare a lavorare, non per la cosiddetta audience a tutti i costi, ma per sollecitare l'attenzione di quella parte del pubblico, sicuramente minoritaria, certo, che ritiene necessario un atteggiamento critico nei confronti della società di massa, generatrice di cattive masse. Il ruolo del musicista e dell'artista in generale è di far leva sul nucleo critico per esercitare l'intelligenza di chi ascolta, alla comprensione di qualcosa che può sembrare difficile, ma che deve essere capito. Il compositore non si può sottrarre al compito di inventare, di proporre, di provocare, non può rinunciare a affrontare determinati problemi e non deve cedere al ricatto del mercato.

(da "Tèmenos", Auditorium, 2002)

Giacomo Manzoni (foto di Abcveneto)

LI: Maestro, com'è stata la sua formazione? Ha subito trovato maestri che l’hanno spinta a perseguire obiettivi nobili, come quelli della nuova musica?  

GM: No, ho avuto una fortuna piuttosto tardiva. Avevo cominciato a studiare musica con dei maestrini, quei maestri di quartiere, per così dire, quasi dilettanti. Io ero comunque curioso, avevo incominciato per caso a mettere le mani sulla fisarmonica, avevo studiato abbastanza bene la teoria e il solfeggio e poi ero passato oltre, ma sempre un po’ a tentoni, perché questi insegnanti non sapevano bene dove portarmi, non avevano delle idee didattiche precise e perciò la composizione non sapevo neanche bene cosa fosse. Poi, con la mia famiglia, ci trasferimmo da Milano a Messina e qui mi andai a iscrivere al liceo musicale privato. Lì, per combinazione, c’era un musicista, un compositore che si era formato alla scuola di Roma, con Respighi, e faceva parte del gruppo di Petrassi, D’Amico, Peragallo, tutta quella cerchia intorno a Casella che aveva un’esigenza di rinnovamento della musica.

LI: Come si chiamava?

GM: Gino Contilli, insegnava storia della musica e armonia complementare e, a chi avesse voluto, composizione. Io mi iscrissi subito al suo corso di composizione. Questo maestro fu fondamentale perché mi aprì la mente su cose che io assolutamente ignoravo: mi fece capire non solo la musica, ma anche la cultura, la modernità, le innovazioni culturali che c’erano state. Sapeva un sacco di cose, era un intellettuale di alto livello e per noi tre o quattro che seguivamo questo corso era una miniera. Io, in questi due anni che studiai con lui, capii quello che era necessario capire. Poi tornai a Milano con la mia famiglia, avevo ormai diciott’anni, mi iscrissi al conservatorio di Milano, continuai a studiare, ma non è che ebbi degli stimoli analoghi a quelli che mi aveva dato Contilli. Andai avanti da solo su questo indirizzo, seguendo le indicazioni che mi aveva dato lui, studiando e leggendo le nuove tendenze insieme ad alcuni colleghi che come me condividevano questa esigenza come Castiglioni e Gaslini. Tra noi giovani c’era questo scambio, questo interesse e quindi ci siamo formati anche al di fuori del conservatorio.

LI: Però Milano era una città anche particolarmente viva all’epoca.

GM: Sì, vivace. C’erano i Pomeriggi musicali, dove si tenevano un buon numero di esecuzioni contemporanee, c’era il terzo programma della Radio che mandava molta nuova musica e poi anche la Scala ogni anno presentava almeno un’opera di Berg, Prokofiev, Shönberg. Però reperire musica era paradossalmente più difficile. Non era come oggi che pigiamo un bottone e abbiamo migliaia di composizioni a disposizione. Le partiture non si trovavano, si potevano ordinare all’estero, ma costavano un occhio della testa e noi eravamo in bolletta, naturalmente. Ci si arrangiava con quello che si poteva trovare. Ma c’era comunque una certa vivacità di cui oggi si sente la mancanza. A Milano, per esempio, nacque lo Studio di Fonologia che fu un punto nevralgico di attrazione, dove si incrociarono tutti, da Stockhausen a Clementi, da Donatoni a Maderna. E poi, più tardi, arrivò anche Nono.

Manzoni durante l'intervista (foto di L.Iavarone)

LI: Lo studio era anche aperto a quelli che volessero andare lì a curiosare?

GM: No, assolutamente. Ma noi facevamo di tutto per entrarci, essenzialmente di nascosto. Io divenni molto amico di Berio e Maderna. Fu fondamentale poter mettere il naso lì, capire cosa facevano, come ottenevano certe cose, come si potevano combinare i suoni attraverso le nuove tecnologie. Ricordo che c’era un tecnico molto fantasioso, perfettamente capace di capire le esigenze dei compositori, si chiamava Zuccari.

LI: E l'ambiente accademico come giudicava questa vostra propensione alla ricerca?

GM: L’ambiente ufficiale era molto più ostile alla musica contemporanea di oggi. Oggi bene o male si accetta, ma allora a parlare di dodecafonia e di strutturalismo ci si metteva contro tutti. Però c’era questo gruppo di giovani, di cui facevo parte che non si davano per vinti. Nel tempo, tra noi, si sono costruite amicizie solide: siamo rimasti molto amici con Berio, con Castiglioni, che ogni tanto veniva con il suo motorino a casa mia e ci mettevamo a suonare il piano a quattro mani, con Fellegara, che forse è un nome che non dice più niente, ma era un grande compositore. E poi con Maderna e più tardi con Nono, col quale c’era un’unità di intenti, eravamo insieme nel Partito Comunista.

LI: L’impegno sociale nel lavoro e nella riflessione musicale di compositore è una cosa a cui non ha mai rinunciato.

GM: Sì, penso che, vivendo nella società in cui sei, devi prendere posizione.Io sono stato uno di quelli che pensava bisognasse prender parte a quegli scontri sociali che in quegli anni erano anche molto vivaci. In maniera mediata, ovviamente, perché non è che la musica poi ti produca la rivoluzione. La musica è un’interpretazione di istanza rivoluzionaria che il compositore cerca di tradurre, di vivere, con i suoi suoni.

LI: Lei è uno che non si accontenta di aver sperimentato, ma vuole sempre rinnovare il suo linguaggio.

GM: Certo. Io penso che riprodurre se stessi non serva. Credo che il compito di un autore sia di esplorare continuamente dei terreni nuovi, magari per quel poco che gli può venire in mente, ma sempre aprirsi una nuova strada. Rifare se stessi è poco interessante.

LI: C’è ancora un po’ di speranza per la musica, quella colta?

GM: Molto ristretta, perché siamo sommersi dalla valanga spaventosa della musica di consumo che ci perseguita dovunque. La grande massa del pubblico, naturalmente, si fa condizionare da questa, perché ovviamente non sa nemmeno che esiste la nostra musica. Ci sarebbe bisogno di una struttura di direttori artistici, di sovrintendenti che capissero e si aprissero di più, cosa che avviene poco oggi.

LI: A cosa sta lavorando ora?

GM: Sto lavorando ancora a una cosa di teatro. Sto pensando ad alcuni argomenti, ma sono ancora un po’ nebulosi. Penso di arrivarci nel giro di qualche anno. Nel frattempo sto lavorando a un pezzo per orchestra per Firenze che mi occupa molto perché ci sono forse delle idee che non avevo avuto finora, relativamente nuove, quindi devo completarlo.

LI: Buon lavoro, allora.

GM: Grazie mille.

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