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Interrogazione alla Commissione Europea: “bresaola vegana” è denominazione ingannevole?

La lingua è politica, ma quando la politica vuole disciplinare la lingua, il sorriso è assicurato.
A cura di Giorgio Moretti
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Antipasto_di_Bresaola
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«Acquistereste mai una scatoletta di tonno trovando poi un passato di zucchina?»
Così, a effetto, si apre l’annuncio diffuso su Facebook da Giovanni La Via (NCD-UDC), deputato del Parlamento Europeo e Presidente della Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare. L'annuncio riguarda l’interrogazione alla Commissione Europea da lui promossa il 28 ottobre scorso, volta al contrasto di denominazioni ingannevoli. In particolare, ciò che La Via intende attaccare è la commercializzazione di prodotti vegetali con nomi che richiamano prodotti a base di carne – facendo l’esempio di mortadella, bresaola, prosciutto vegani.

Trovo che da un punto di vista linguistico ben prima che politico si tratti di un’interrogazione ridicola.

Che cosa dice questa interrogazione

Molteplici prodotti agro-alimentari a base vegetale basano i propri risultati di vendita su denominazioni che richiamano prodotti a base di carne o prodotti lattiero-caseari, andando contro alle regole in materia di etichettatura (regolamento (UE) n. 1169/2011) e di commercializzazione dei prodotti lattiero-caseari (regolamento (UE) n. 1308/2013).

Talvolta, tuttavia, pur non violando le regole, in particolare per quanto riguarda i prodotti a base di carne, si riscontrano pratiche tese a promuovere la vendita di prodotti per vegani e per vegetariani che si avvantaggiano di denominazioni chiaramente riferibili a prodotti a base di carne. Ne sono esempi la bresaola vegana, il prosciutto vegetariano e la mortadella vegana. Si tratta, peraltro, di denominazioni tutelate anche da norme nazionali.

Poiché allo stato attuale non esiste una normativa europea chiara a tutela di talune denominazioni e il mercato è saturo di questo genere di prodotti, intende la Commissione:
— Intervenire e regolamentare questo particolare settore?
— Predisporre una normativa europea in grado di salvaguardare determinate denominazioni riferibili a prodotti a base di carne, come peraltro avviene per i prodotti lattiero-caseari?

(Il grassetto è mio.)

La questione del latte

Nel muovere la sua interrogazione, l’Eurodeputato prende le mosse dalla normativa europea che da qualche anno ha investito il termine ‘latte’.

In poche parole, ai sensi del Regolamento 1308/2013, il prodotto commercializzato come ‘latte’ senza ulteriori specificazioni non può che essere il latte di vacca; se è latte di altri animali deve essere specificato. Ma comunque ‘latte' può essere usato solo per indicare una secrezione mammaria: sono bandite le metafore. Tranne quelle più consolidate, come il latte di mandorla (al Sud nei monasteri si fa da quasi mille anni) e il latte di cocco. Il risultato è che il latte di soia, il latte di lupino, il latte di nocciole, il latte di riso e tutte quelle bevande che per colore, gusto, proprietà, metodi di impiego ricordano il latte ma che sono valutate meno tradizionali non possono essere commercializzate col nome di ‘latte’.

Questa norma, viene detto, è stata posta a tutela del consumatore. Interviene su un fenomeno linguistico – la metafora del latte – dicendo: stop. Le metafore del latte più vecchie vanno bene per la vendita, sono comprensibili, quelle nuove no.
Già questa è un’ingerenza che fa ridere: il diritto che regola le metafore.

Proviamo a immaginare in difesa di chi: c'è una persona che non comprende la dicitura ‘latte di soia’, il nome con cui è universalmente noto e indicato questo alimento – su internet, in televisione, sui libri di ricette, su giornali e riviste.
Non conosce il latte di soia, quindi non lo sta cercando. Ne vede per caso un cartone su uno scaffale al supermercato, la mente di costui comprende la dicitura ‘latte', mentre la specificazione ‘di soia' lo disorienta, lo trae in inganno – e così, povero diavolo, non può fare altro che prendere quel cartone e metterselo nel carrello. Però se si fosse trattato ‘di capra', ‘di mandorle' o ‘di cocco' non sarebbe stato disorientato: lì avrebbe dominato la situazione.

Se è vero che chi pensa male va a l’inferno ma l’indovina, questa norma, più che dare una bizzarra protezione a un tipo irreale di consumatore che avrebbe serissimi problemi generali, dà una protezione tanto ingiustificata quanto poco efficiente al produttore di latte, che vede le sue vendite insidiate dai nuovi e (a quanto pare) amati prodotti a base vegetale. In questa maniera si tenta di segnare una differenza ontologica fra un prodotto genuino, il vero e solo latte, e le brodaglie surrogate, le ‘bevande di', i ‘drink'. (Come se chi è pronto a pagare il doppio per del latte vegetale si facesse sgomentare dal non poterlo chiamare latte, o dal nome brutto, ma proseguiamo.)

La proposta di Giovanni La Via su bresaola e mortadella

L’idea che La Via propone è quella di tradurre la stringente normativa che c’è sul termine ‘latte’ per coprire anche i nomi comuni di prodotti a base di carne. Perché attenzione, non si sta parlando di denominazioni precise, ma di nomi comuni. Pensiamo alla mortadella.

Esiste la Mortadella Bologna IGP, l'eccellenza storica della mortadella, un salume specifico, diciamo pure un marchio, che per essere prodotta richiede sia seguito un particolare disciplinare; ma la ‘mortadella’ non è solo la mortadella bolognese.
Ad esempio esiste la mortadella di Prato, esistono i ‘coglioni di mulo' – alias mortadella di Campotosto; ed esistono molte varianti parecchio umili di questo salume, che ha come denominatore comune distintivo inclusioni disomogenee e un certo sapore speziato (originariamente, necessario oltre che alla conservazione anche ad addomesticare il sapore non sempre impeccabile di ingredienti non sempre ottimi). Insomma, esiste UNA Mortadella Bologna IGP, non esiste UNA mortadella in generale. Le prime mortadelle etrusche erano condite col mirto – da cui probabilmente viene il nome ‘mortadella’ stesso – e oggi sentiamo parlare di mortadelle di pollo, di tacchino, e anche interamente vegetali. Perché il termine ‘mortadella’ è un termine comune, che nei secoli noi italici abbiamo usato estensivamente per descrivere tutto ciò che ricollegavamo alla nostra idea di mortadella – ciò che ci richiamava l’anello precedente nella catena di significati che il termine ‘mortadella’ ha avuto.

Discorso analogo può essere fatto per la bresaola. Esistono dozzine di bresaole, anche radicalmente diverse le une dalle altre, che condividono alcuni labili caratteri: tendenzialmente – e solo tendenzialmente – sono crude e magre. Ma oltre alla Bresaola della Valtellina IGP, che deve essere fatta con carne di manzo, esistono bresaole di cervo, di cavallo, di tacchino, di tonno, di pescespada.
Se vedo scritto ‘bresaola di tonno’ e non so che cosa sia di preciso la bresaola di tonno (un prodotto eccellente che si produce al Sud, anche noto come ‘prosciutto di tonno'), immagino subito un prodotto che rassomiglia per forma, lavorazione e magari gusto alla bresaola che conosco – solo, fatto con del tonno.
Questo è un processo fisiologico della lingua: per economia ed efficacia, uso elementi della realtà noti per descrivere caratteristiche di elementi nuovi. Ed è un processo che non disorienta nessuno che parli italiano – nemmeno se si trova davanti a una ‘bresaola vegetale’.

Vogliamo immaginarci il collega del consumatore che si faceva ingannare dal latte di soia? Davanti allo scaffale di prodotti per vegetariani e vegani legge ‘bresaola', e tanto basta, ha già fatto lo sforzo di leggere il sostantivo; afferra la confezione e via, le specificazioni sono per chi ha tempo da perdere. Vive una volta sola, lui.

Nomi comuni e denominazioni specifiche

Il punto è che ‘bresaola’ e ‘mortadella’, così come ‘salame’ e anche ‘latte’, sono nomi comuni. Non sono nomi propri, né denominazioni – e perciò ci possiamo fare tutto quello che vogliamo. Se voglio vendo un meraviglioso salame di cioccolato chiamandolo proprio così, e né associazioni di consumatori, né gendarmi, né Tullio De Mauro mi potranno o vorranno fermare. Nonostante il mio scacco all'industria dei salumi e lo sgomento di un terzo collega al supermercato.

Un esempio contrario? ‘Gorgonzola’. È una denominazione specifica: se faccio un formaggio erborinato (bel modo per dire ‘fatto con la muffa') ma con latte di capra e secondo un procedimento inventato da me non lo posso chiamare ‘gorgonzola’. Il gorgonzola è solo un esatto tipo di formaggio DOP – che prende il nome dalla bellissima (e benedetta) città di Gorgonzola, nel Milanese, casa di un pezzettino del cuore di noi tutti.
E al contrario di quanto si legge nell'interrogazione sopracitata, è questo il tipo di nome che le leggi proteggono, attraverso le denominazioni IGT, DOP et cetera. Non i nomi comuni – su cui in maniera miope si è buttata la legislazione europea, e su cui il nostro La Via cerca di rincarare la dose.

Da un punto di vista linguistico, l’idea di limitare, in nome della difesa del consumatore, un nome comune che la nostra preziosa lingua, mercé la nostra cultura, ha sempre usato in maniera versatile è una mossa ridicola. E dopo l’esperienza col fascismo noi italiani dovremmo essere particolarmente sensibili al ridicolo dei pastrocchi causati dall’ingerenza del diritto nella lingua. Senza contare che, proprio se teniamo alla nostra lingua, ci dovrebbe stare a cuore il suo vivo funzionamento: l'alternativa a ‘latte di soia', spesso, è ‘soyadrink'. Chissà che diventerebbe la bresaola vegetale.

Il vero problema di latte, bresaola & co.

Il problema della bresaola di carne non è certo l’insidia dei produttori (spesso italiani) di ‘bresaole vegetali', né di tonno, né di altro. Così come il problema del latte non è che i produttori di latte di soia sono truffaldini manipolatori.
Un problema vero è che senza infrangere il disciplinare IGP della Bresaola della Valtellina, questa può essere fatta con carne di zebù brasiliana congelata. Che sicurezza mi dà tutta la solennità della denominazione? Un problema vero è che io compro il ‘latte' – quello rigorosissimamente vaccino, ché solo lui ha la dignità di portare questo nome – spesso senza avere il minimo indizio sulla sua provenienza.
Chi è che mi sta ingannando, chi è che mi sta sottacendo qualcosa che dovrei sapere? Il produttore lombardo che mi vende ‘latte di soia coltivata in Italia' o chi mi vende ‘latte' sì vaccino ma senza altra informazione? Il produttore calabrese di bresaola di lenticchie fatta coi prodotti della sua azienda agricola o quello di Bresaola della Valtellina IGP che usa carni sì di zebù ma che vengono da tempi e luoghi lontanissimi? Da chi ho bisogno che la nostra legge mi difenda?

Presidente, ci sono nemici più grandi delle metafore. Se si vuole appoggiare un operatore economico (come i produttori di salumi), cercare di sminuirne i concorrenti con strumenti linguistici, invece di aiutarlo a offrire un prodotto davvero sicuro e di qualità di cui il consumatore si possa fidare, è una strategia tanto più facile quanto più povera.

(E nota finale, che però non si può eludere: davvero il Presidente della Commissione ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentare del Parlamento Europeo deve spendere le sue energie in difesa di carni processate che lo IARC ha da poco annoverato fra i cancerogeni certi? Non che debba diventare obbligatorio mangiarle, ma perché vuole mettere i bastoni fra le ruote ad alternative più salutari ed ecologiche?)

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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