Una cosa che abbiamo sentito ripetere spesso è che dopo la pandemia le piattaforme e i servizi streaming hanno deciso di rivedere la propria linea editoriale, dando decisamente più spazio ai prodotti pensati per il pubblico italiano. Questo principalmente per due motivi. Il primo: l’aumento dei costi. Il secondo: la consapevolezza che provare ad accontentare tutti, italiani e non italiani, difficilmente porta a qualcosa di buono.
Ilaria Castiglioni, Tv scripted content executive di Netflix, ha lavorato in passato come produttrice per Indiana e quindi ha una visione ampia e allo stesso tempo approfondita del nostro mercato. Il suo ruolo, spiega, è associabile a quello di un produttore esecutivo, anche se alla fine Netflix rimane il committente dei progetti che cura. In questi anni, Castiglioni ha lavorato a titoli fortemente innovativi come le due serie animate di Zerocalcare, che di fatto hanno permesso al linguaggio dell’animazione di ritornare al centro del dibattito produttivo.
In questo periodo, sta seguendo A.C.A.B., tratta dall’opera di Carlo Bonini e ispirata all’omonimo film, e Il Mostro, progetto incentrato sul Mostro di Firenze diretto da Stefano Sollima. Parla di talenti, di necessità industriali e di mercato; definisce buoni produttori quelli che sanno dire di no agli autori e che sono sempre pronti a dire la verità. Ha scelto questo mestiere perché le storie le sono sempre piaciute, racconta. E perché è stata fortunata. Ha cominciato al Piccolo, in teatro, ed è passata velocemente al grande e al piccolo schermo.
Il suo percorso in Netflix è estremamente interessante, sia per la specificità delle cose che ha fatto sia per l’idea artistico-creativa che, fin dal primo giorno, ha deciso di abbracciare. Rispetto alle altre puntate di Controcampo, questa può sembrare una deviazione rispetto all’obiettivo che ci siamo originariamente posti – concentrarci, cioè, sui produttori. Ma Castiglioni si pone come un’eccezione felice, a metà tra l’aspetto più industriale del mercato audiovisivo italiano e quello più innovativo, figlio sicuramente della spinta internazionalista di realtà come Netflix. Questo è il suo Controcampo.
Qual è il tuo ruolo in Netflix?
Sono una content executive e mi occupo di serie fiction; non faccio, insomma, quello che fa Giovanni Bossetti che invece segue le docu-serie e i titoli unscripted. Il mio lavoro consiste nell’intercettare i progetti: quindi ascolto le proposte dei produttori e le scelgo insieme al resto del team guidato da Tinny Andreatta, che ha tantissima esperienza soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il pubblico. Ovviamente va fatta una distinzione tra le varie fasi di lavoro. Si comincia con il pitch e si passa, poi, allo sviluppo della storia.
E come si sviluppa una storia?
Stando attenti, ascoltando sia i produttori che gli sceneggiatori. L’obiettivo è cercare di tenere sempre viva l’intuizione iniziale, che è un po’ come la scintilla dell’innamoramento: dopo dieci anni di matrimonio, devi imparare a ricordarti quando c’è stata e che cosa, in particolare, ti ha colpito. Insomma, devi capire come fare per tenere sempre presente quell’aspetto più viscerale, che risuona con la sensibilità di ognuno di noi. E poi c’è l’aspetto tecnico.
Quello, invece, come si tutela?
Sostanzialmente facendo domande. Devi parlare sia con i produttori che con i creativi, come ti dicevo. Serve trovare un equilibrio tra chiarezza e complessità ed è una cosa paradossale, lo so. Per un prodotto televisivo, bisogna stabilire un dialogo con gli spettatori, mantenendo una certa immediatezza nella comunicazione delle premesse e non rinunciando a una ricercatezza nello sviluppo del racconto. Il nostro lavoro prosegue poco sul set. Anche perché il set è un mondo particolare, dove devi avere un compito preciso per non rischiare di essere di troppo. Torniamo a sentirci alla fine, in fase di montaggio, proprio per tutelare quell’intuizione iniziale di cui ti parlavo prima.
Il tuo ruolo è associabile a quello del produttore esecutivo?
In un certo senso sì, lo è. Io comunque resto il committente, quindi sono dall’altra parte rispetto al produttore del singolo progetto. In passato, ho lavorato come produttrice. E in quel caso lavoravo al massimo su uno o due progetti alla volta, non di più, perché è estremamente impegnativo. Come editore, tendi a stare due passi indietro per avere una visione più completa.
Ti manca quel periodo da produttrice, in Indiana?
Netflix è una giostra che va a una velocità incredibile, e credo che in questo momento sia il posto migliore per me. Perché riesco a vedere le cose fatte e l’impatto che hanno sul pubblico, e questo privilegio mi ha insegnato tantissimo. Quando facevo la produttrice, ho seguito tanti film. E in quel caso hai un rapporto con il pubblico della sala. Ho lavorato con Gabriele Salvatores, Sergio Castellitto, Paolo Virzì e Francesca Archibugi. E poi ho seguito diverse opere prime. E vedevi proprio la differenza della risposta del pubblico.
In che senso?
Un’opera prima ha bisogno dei festival se ha una vocazione più autoriale; se non ce l’ha, diventa tutto più complicato. Mi manca, se vuoi, l’artigianalità del mestiere. Ho cominciato facendo veramente di tutto, e a poco a poco mi sono ritagliata il mio spazio.
Quali sono le più grandi differenze con Netflix?
La cosa che mi piace di più, adesso, è poter lavorare con una squadra affiatata, sempre pronta a partecipare attivamente. Prima si trattava di una dimensione più europea, perché ci sedevamo insieme ai rappresentati francesi, spagnoli eccetera; oggi, invece, è una squadra completamente italiana. Sono sempre curiosa di vedere come risponde il pubblico ai titoli che decidiamo di distribuire. Quando leggi una scena, cominci già a immaginare i possibili commenti degli spettatori.
È vero che i servizi e le piattaforme streaming si muovono seguendo unicamente i data?
Se ci fosse una formula scientifica o un algoritmo infallibile, il nostro lavoro non avrebbe alcun senso. Siamo ancora tutti qui e la differenza, alla fine, la fanno proprio le persone. E facendola la persone, questa differenza, è chiaro che contano elementi come la sensibilità, la visione e le intuizioni. Non c’è nulla che possa sostituire il fattore umano.
Indubbiamente, però, i dati contribuiscono attivamente al vostro lavoro.
Guarda, quando facevo cinema, ricordo che tutti erano attaccati ai dati Cinetel per conoscere gli incassi dei film. Era un modo, se vuoi, per provare a tracciare un andamento. I numeri che ricevo oggi, invece, servono per affinare la nostra visione e la nostra sensibilità, per provare a seguire una direzione più precisa ma non per questo imposta da un dato. Io cerco costantemente di individuare il mio spettatore ideale, un punto di riferimento per le storie che scelgo e che seguo in prima persona. Ma non ci sarà mai un’indicazione su cosa dire e come dirlo, su quali aggettivi utilizzare. Altrimenti rischiamo di ricreare l’effetto dell’Oroscopo di Internazionale (ride, ndr). Sarebbe tragico e troppo facile.
Che cosa conta, allora?
Stare nel mondo, viverlo, continuare a guardarsi intorno e non fossilizzarsi su determinate idee. È quello che ripeto costantemente ai talenti più giovani che lavorano con noi. Serve partire da una certa esperienza, che può essere sorretta da dati e numeri, ma è soprattutto importante provare sensazioni ed esperienze per poterle raccontare. Pensa a Zerocalcare, che è così radicato nella sua realtà da saperne trarre un immaginario enorme e riconoscibilissimo. Se ci affidiamo troppo agli esempi, corriamo il pericolo di raccontare sempre la stessa storia.
La maggior parte dei produttori che ho intervistato mi ha detto che le piattaforme e i servizi streaming, dopo il boom degli anni scorsi, hanno rivisto la propria linea editoriale decidendo di puntare sul pubblico italiano. È così?
Io ti parlo per Netflix, ovviamente.
Certo.
Noi abbiamo avuto un’evoluzione velocissima, come sai. Quando abbiamo iniziato, lavoravamo in Olanda e avevamo un team composto da rappresentanti di diversi paesi tra cui gli Stati Uniti. I riferimenti che avevamo si rifacevano soprattutto al linguaggio nord-americano. Quando è stato finalizzato il passaggio in Italia, la nostra visione si è affinata. Noi conosciamo il pubblico italiano e conosciamo la nostra tradizione, e sappiamo ciò che talenti e produttori sanno fare. C’è stata un’evoluzione naturale, per niente forzata. La centralità del prodotto italiano è il motivo per cui esiste una sede nel nostro paese. C’è un rapporto di fiducia reciproca con i nostri abbonati. E poi l’esperienza ci ha mostrato un’altra cosa.
Cosa?
Che per fare titoli come Squid Game o Lupin è fondamentale puntare sulla specificità di un mercato, senza cercare di condizionarla o di trovare compromessi con i gusti e le tendenze degli altri paesi.
Il rischio qual è?
Di non parlare a nessuno, e di realizzare una brutta copia di qualcosa che qualcun altro, prima di te, ha già fatto. Torno ancora una volta su Zerocalcare. Se ha funzionato, è stato proprio per la sua specificità.
Mentre lavorate a una storia, non pensate mai al pubblico internazionale?
No, mai. Probabilmente, lo facciamo solo quando si tratta di trovare il ritmo gusto.
In che senso?
Pensa a un titolo come Il Gattopardo, una storia già conosciuta e diffusa in tutto il mondo. Ecco, abbiamo provato a tenere in considerazione non gli spettatori stranieri come un limite, ma proprio come un riferimento per la chiarezza del racconto. Perché tutti devono essere in grado di seguire la storia. Non per questo, però, ci sono storture, ammiccamenti o pensieri inutilmente artificiosi.
Quali sono questi pensieri?
Spesso, anche quando facevo la produttrice, mi è capitato di sentire di storie che si potevano ambientare ovunque, a Roma, a Parigi e a New York. E come premessa è veramente strana, perché significa che sono storie che non appartengono a nessuno.
A proposito di Zerocalcare, pensate di distribuire e sviluppare altre serie animate? In Italia questo resta un linguaggio rivolto prettamente ai più piccoli.
È vero, il target di riferimento principale continua a essere questo. Ma non dimentichiamoci dei prodotti più autoriali e maturi di Mad Entertainment. Mi piacerebbe molto lavorare ad altre serie come quelle di Zerocalcare. Grazie a lui, abbiamo aperto una strada. Ora, però, è fondamentale trovare i progetti giusti; non possiamo limitarci a fare una cosa approfittando unicamente del successo di Zerocalcare.
A che cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto lavorando ad A.C.A.B. e a Il Mostro (serie sul Mostro di Firenze, ndr). Le riprese di entrambe le serie sono quasi finite, ma sto seguendo anche altri progetti. Non posso dirti quali, perché non sono ancora stati annunciati. Sia A.C.A.B. che Il Mostro sono state esperienze molto belle. Non avevo mai lavorato con Stefano Sollima, e si è rivelato essere una persona di grande intelligenza e soprattutto sempre pronto ad ascoltare. Sono curiosa di vedere il primo episodio de Il Mostro, perché è estremamente interessante sia per la sua struttura di racconto che come progetto. Anche in questo caso, si tratta di una prima volta. Su A.C.A.B. hanno fatto un grande lavoro Filippo Gravino, con cui avevo già collaborato ai tempi di Indiana, e il regista Michele Alhaique.
Durante una delle nostre prime chiacchierate, hai detto che per Netflix era importante cercare nuovi talenti per costruirsi una sua scuderia. Ultimamente avete lavorato anche con autori affermati, come Edoardo De Angelis e gli stessi Sollima e Alhaique. C’è stato un cambiamento sotto questo punto di vista?
Un pochino sì, però lasciami dire una cosa. Parliamo sempre di registi quarantenni. In Italia come sai la definizione di giovane è molto larga. E non tutti sono pronti a dare una responsabilità come quella di gestire milioni di euro di budget ad autori giovani. Ti faccio altri due esempi: Claudio Cupellini con cui stiamo lavorando (a Storia della mia famiglia, ndr) e Matteo Rovere. Sono i rappresentanti di una nuova generazione di creativi. L’aspetto più interessante, secondo me, è rappresentato dalle writers’ room, dove ci sono esordienti che proviamo a formare, con iniziative come La bottega della sceneggiatura, e a mettere in sicurezza.
A che cosa state attenti?
A non far fare dei salti troppo ampi ai più giovani perché rischiano di farsi male. Hanno bisogno di mentori, di punti di riferimento. Nella serialità, i tempi sono molto dilatati e una crescita effettiva, secondo me, è più facile da rintracciare.
Secondo te, più in generale, manca una consapevolezza nei confronti dei nuovi talenti
A volte, anche quando facevo la produttrice in Indiana, mi è capitato di vedere dei registi messi in serie difficoltà durante la loro opera seconda. Se per l’esordio si lavora tanto, usando budget relativamente ridotti, tornando indietro, riscrivendo e stando attenti nell’ottenere il risultato migliore per rispettare la visione e la necessità avvertita dallo stesso regista, per il secondo film – sto parlando di cinema, adesso – viene data carta bianca. E si finisce, così, per spendere tanto e per avere progetti senza anima, anonimi, in cui un autore può togliersi tutti gli sfizi che vuole. Ovviamente questo avviene se il primo film è andato bene e ha ottenuto un certo successo.
Come si fa a proteggere un talento?
Dicendo di no, non dandogli tutto quello che chiede. E questo non va letto come un tentativo di fermarlo, ma come un desiderio di proteggerlo. I no nascono dall’esperienza, non dall’arroganza.
Si produrrà di meno nei prossimi mesi e nei prossimi anni?
Da parte nostra no, anzi. Siamo sempre cresciuti nel corso del tempo.
Sia A.C.A.B. e Il Mostro, di cui mi hai parlato poco fa, si concentrano su generi specifici, come il crime e il poliziesco. Per quanto riguarda, invece, il fantasy e la fantascienza ci sono nuovi progetti in fase di sviluppo?
Anche qui, come per l’animazione, va trovato lo spunto giusto. Vincono la storia e chi te la porta. L’autore deve dimostrare di sentire una certa urgenza oppure di essere veramente appassionato della sua idea. Io ho provato, come sai, a sviluppare questo tipo di racconti, ed è chiaro che bisogna trovare un equilibrio tra tecnica e visione, tra ciò che possiamo fare come industria e ciò che, invece, ci piacerebbe fare. Non possiamo rischiare di suonare finti o di voler a tutti i costi riprendere storie e filoni che non sono nati in Italia.
Però dei tentativi riusciti ci sono stati. Penso, per esempio, ad Anna di Niccolò Ammaniti. Che non è mai stato una serie post-apocalittica come, faccio un altro nome, The Last of Us.
Anna, però, viene anche da un libro di successo, che ha avuto il suo seguito e il suo pubblico. Non so dirti, poi, come sia andata la serie: non ho quei dati. Indubbiamente parliamo di un prodotto molto bello, e tutti i prodotti come Anna fanno bene all’intera industria, perché possono funzionare come apripista. Ma – lo ripeto – dipende sempre dalla storia e dall’autore che te la porta.
Ti capita mai di leggere fumetti italiani e di volerli adattare per il piccolo schermo?
Certo, assolutamente. È il mio pane quotidiano ed è un tema che mi appassiona. La nostra generazione è cresciuta guardando serie e anime che sono stati pensati per gli adulti, non per i bambini. Quindi per noi si tratta di storie facili da capire e da fruire. Nel fumetto e nell’animazione, un autore ha la possibilità di mettere in scena esattamente quello che ha in mente. Perché il disegno, da questo punto di vista, ti libera. E può farlo con il suo stile e la sua firma.
Ci sono serie italiane che hai visto ultimamente e che ti avrebbe fatto piacere produrre?
Sicuramente The Bad Guy e Call my agent – Italia.
Perché?
Perché hanno un tipo di linguaggio che a me piace molto; sanno unire generi e toni differenti, tra commedia e – talvolta – dramma. Sono quei progetti che restituiscono immediatamente un’idea di divertimento e passione.
Ogni mese quanti progetti ti arrivano, più o meno?
In alcuni periodi ci sono dei veri e propri boom di idee e soggetti. Di solito, però, ne arrivano circa trenta.
Uno al giorno.
Ovviamente arrivano tutti insieme, a scaglioni.
Perché hai deciso di fare questo lavoro?
Può sembrare la solita storia, lo so. Però quando ero piccola e vivevo a Cremona, nel cortile di casa mia si organizzavano spesso spettacoli teatrali. Eravamo una trentina di bambini. Per me il sipario che si apre è sempre stato un momento incredibile; all’epoca, mi ricordava la stessa sensazione che si prova quando si va a letto e i tuoi genitori ti leggono una storia. Provavo lo stesso senso di attesa e di curiosità.
Che cosa hai studiato all’università?
Ho fatto Economia per le istituzioni culturali, con un indirizzo specifico sul teatro e sulla musica. Ho frequentato la Holden e ho lavorato un po’ al Piccolo quando ho fatto uno stage. E non ti nascondo che mi sarebbe piaciuto tantissimo continuare così, in teatro.
Però?
Però mi faceva paura, perché non mi dava nessuna sicurezza. Durante l’università ho avuto un figlio, che ho cresciuto da sola, e avevo bisogno di lavorare. Per una serie di coincidenze, sono capitata in Indiana. E il cinema per me è stato il primo vero passo in questo mondo. Alla fine, come sai, è arrivata la televisione, che ho subito amato perché nella serialità viene rimessa al centro la scrittura. Quindi, riassumendo, se faccio questo lavoro è perché ho sempre avuto una passione per le storie e perché sono stata fortunata.
Tu credi che, oggi, tra gli autori più giovani ci sia la tendenza a non tenere in considerazione il pubblico?
Secondo me, è una cosa che lentamente sta sparendo. Giovane, come ti dicevo prima, ha un’accezione particolare in Italia. Quando parliamo di giovani autori, parliamo di autori che hanno tra i 18 e i 40 anni. Però sono sicura che molti scrittori hanno fatto questo passaggio e vedono il pubblico come una necessità. In questo senso, c’è stata un’inversione di tendenza.
Si sottovaluta il pubblico?
Il pubblico, da parte sua, è implacabile. E secondo me, cercare di non parlarne è un tentativo che fanno alcuni autori di tutelarsi: meglio fare finta di niente che affrontare l’elefante nella stanza. È un meccanismo di difesa. Il pubblico è spietato quando scopre che lo stai prendendo in giro e capisce che non sai di che cosa stai parlando; se invece sei autentico, è pronto a sostenerti e ad apprezzarti. Il pubblico è molto intelligente, soprattutto oggi, abituato com’è a vedere qualsiasi tipo di cosa.
Prima mi hai detto che ti chiedi sempre chi sia il tuo spettatore ideale. Che risposta ti dai?
Che non sono io. (ride, ndr) È la prima regola, questa. Devi sempre ricordarti di essere in una bolla e che non puoi né scegliere né produrre per te stessa. Personalmente, non c’è sera in cui non guardo tre puntate di Friends; è una serie che mi aiuta a tornare con i piedi per terra. Per rispondere alla tua domanda, però: il mio spettatore ideale è uno spettatore che non vuole essere né preso in giro né guardato dall’alto in basso.
È importante, mi hai detto prima, saper dire di no a un talento per tutelarlo. Sono in molti i produttori che lo fanno nel nostro paese?
Dipende dal talento, mi viene da dire. A volte si ha la tentazione di dare a un grosso talento tutto quello che vuole. E invece sono proprio i talenti da proteggere di più, quelli più grandi. Dire la verità è sempre importante, perché è ciò che permette di costruire non solo un rapporto di fiducia, ma di rispetto.
Oggi l’Italia è un paese per talenti?
Per me sì, perché c’è lavoro e ci sono interlocutori con cui parlare. C’è la possibilità di confrontarsi. Questo è un mestiere particolare, che si basa sulla creatività. Quando un autore ti porta una storia che sente urgente, significa che ti sta dando un pezzo di sé stesso. Ed è fondamentale saper riconoscere questa cosa. Però non bisogna nemmeno dimenticare che questo mestiere si inserisce in un’industria più grande e che c’è un pubblico, poi, che va tenuto in considerazione.
E secondo te l’Italia continuerà a essere un paese per talenti anche in futuro?
Dipenderà unicamente dal rapporto che i talenti riusciranno a costruire, o a non costruire, con il pubblico. Se il rapporto con il pubblico rimarrà una priorità per tutti, sì, l’Italia continuerà a essere un paese per talenti.