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Il video dell’aggressione al disabile: quando Facebook diventa capro espiatorio

Cosa ci insegna il video del disabile picchiato e sbattuto su Facebook? Nella maggior parte dei casi l’identità deviante reale si trasporta nel virtuale alla ricerca di consenso al proprio modo di essere.
A cura di Marcello Ravveduto
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Cosa ci insegna il video del disabile picchiato e sbattuto in rete attraverso Facebook? Il social, con un miliardo e trecentomila utenti, è stato paragonato ad una nazione e Zuckerberg, inventore e proprietario del network, è stato riconosciuto come uno degli uomini più potenti al mondo, capo di Stato di una nazione multietnica, multiculturale e multilinguistica. Una nazione che contiene allo stesso tempo africani, americani, asiatici, australiani ed europei. Del resto, il motto del social network è: «Facebook è semplicemente il posto in cui trovi le persone».

Il cittadino/utente è riconoscibile dal profilo con una foto formato tessera uguale a quella delle carte d’identità; la sua privacy, inoltre, è tutelata da codici di riconoscimento e griglie d’accesso. Si costruisce, così, nell’ambiente virtuale, uno spazio personale privato, il profilo, e uno spazio collettivo pubblico, il wall della home page. Una separazione che richiama una delle caratteristiche identitarie delle borghesie urbane occidentali durante la stagione d’oro degli stati nazionali: la divisione tra impegno pubblico (il lavoro e le attività sociali) e momento privato (la famiglia, gli affetti). Il collegamento tra le due sfere, la politica, avveniva attraverso la condivisione degli ideali e degli interessi personali e di classe.

Allo stesso modo in Facebook il nesso pubblico/privato si fonda sullo sharing (condivisione) di foto, video, link, canzoni e post attraverso i quali il cittadino/utente comunica alla networked community gli ideali e gli interessi personali, senza più distinzione di classe. La condivisione dei contenuti è equiparabile all’attività politica della civiltà industriale. Lo sharing eccita la mobilitazione, pro o contro, intorno a temi emblematici e casi concreti rimbalzati dagli old media o nati direttamente nel contesto digitale in una convergenza intermodale amplificata che “vernacolarizza” la globalizzazione compatibile e assoluta.

Basta cliccare su “Mi piace” per esprimere consenso o commentare in maniera negativa per manifestare dissenso. Il commento, in fondo, tende a riprodurre la libertà di parola, così come la creazione di gruppi e pagine fan riproduce la libertà di associazione delle società democratiche. A differenza della vita reale, nel virtuale si può far ascoltare la propria voce, prendere la parola e far vedere ciò che si è senza dover passare attraverso i canali dell’istruzione, del merito, della conoscenza, della professionalità o della competenza tecnico-scientifica. Ad un post si reagisce senza considerare quale sia la fonte emittente e senza valutare il contesto (ideale o di interessi) retrostante.

L’identità digitale imita la cittadinanza reale, anzi essere cittadini virtuali è anche più facile poiché l’accesso alla rete non presuppone un sapere specifico. È un’azione che avviene per induzione ed autoapprendimento. Chi impiega Google, Facebook, Youtube o qualsiasi altro strumento della Rete mette a frutto le proprie capacità di intuito e di emulazione, ovvero abilità e talenti che non discendono dal grado di scolarizzazione individuale. Così può accadere che anche chi non abbia raggiunto una sufficiente alfabetizzazione analogica può trovarsi completamente a suo agio nell’esperienza virtuale. In questo gioco di specchi, che intreccia online e offline, la personalità dell’individuo, e quindi la sua quotidianità, diventa la somma delle azioni concrete praticate nel mondo reale e la condivisione di contenuti caricati nei social network. La percezione dell’io (ovvero l’immagine che gli altri hanno di un qualsiasi internauta) dipende anche dalla rappresentazione costruita nelle successive connessioni.

In forma di immaginario metaforico le Rete tende a riprodurre, smaterializzandole, le caratteristiche delle società complesse: territorio, relazioni umane, comunità identitarie, scambi economici. Ma è proprio questa emulazione, tipica delle geometrie reticolari, che consente alla cittadinanza di sviluppare, all’interno dell’ambiente digitale, un’irresistibile capacità “adattiva”, metabolizzando i valori e le azioni del contesto reale in cui vivono.

Se il web, e Facebook in particolare, è “sentito” come un’estensione della vita reale è del tutto naturale che anche l’esperienza delinquenziale sia parte integrante dello sharing online. Il bullo, il delinquente, il violento in genere cercano la condivisione di un orizzonte culturale, una weltanschauung della marginalità (o del protagonismo, a seconda dei punti di vista) sociale che si sintetizza nella condivisione di contenuti multimediali.

Ciononostante ogni volta che si tratta l’argomento violenza e Web la cronaca assume i toni dell’allarmismo demonizzando i social network, strumenti infernali della «globalizzazione criminale». Si attribuisce al social network di Menlo Park, in particolare, lo stigma della propagazione di modelli devianti. Con ogni probabilità questa deriva è il risultato della retorica occidentalistica secondo la quale la tecnologia può solo produrre miglioramenti sociali, economici e civili, progredendo con un andamento lineare ascendente che marginalizza i fenomeni di sottosviluppo. In tal senso le azioni criminali sono interpretate come manifestazioni di degrado non adeguate a un contesto di massima innovazione che dovrebbe ammettere solo contenuti di alto profilo civile e sociale, trasformando il network in una specie di paradiso virtuale bonificato da tutte le manifestazioni di odio presenti nel mondo reale.

Spesso, però, l’attacco ai social network, e in particolare a Facebook, deriva dall’impossibilità di controllare i processi decisionali del network individualism, ovvero dall’incapacità di rispondere a due fenomeni relazionali contrapposti delle società avanzate: da un lato la crescente crisi delle tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia, stato, chiesa, scuola, lavoro ecc.) e dei corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni di categoria, istituzioni ecc.) la cui funzione è il collegamento tra il singolo e la comunità nazionale; dall’altro lo sviluppo dei social media che aumentano le possibilità di entrare in contatto con reti di soggetti disseminati territorialmente con cui si possono condividere interessi, relazioni e comunicazioni senza mediazioni.

Una paura fondata sulla preoccupazione che anche le nuove forme virtuali di organizzazione comunitaria, con tutto il portato retorico dell’ampliamento delle libertà individuali, siano soggette al controllo di poteri criminali. Ma anche in questo caso siamo di fronte ad uno stereotipo condizionato dalla convinzione che la cultura partecipativa online e il capitale sociale digitale debbano, in quanto creazioni di algoritmi matematici, essere immuni dall’attacco “virale” di criminali, razzisti, sessisti, integralisti e via discorrendo. Si presuppone, cioè, che gli ismi, in quanto arcaici, non debbano avere cittadinanza nelle pratiche di condivisione e di collaborazione fiduciaria nate nell’ambiente digitale.

Ma se nella vita reale i disvalori dell’odio hanno dimostrato la capacità di accumulare capitale sociale negativo perché questo non dovrebbe manifestarsi nei social network, visto che le piattaforme si propongono come emulazione del reale? Ricordate lo slogan del colosso di Menlo Park? «Facebook è semplicemente il posto in cui trovi le persone». Il termine persone non ha nessuna qualificazione proprio come accade nella vita quotidiana. Saranno poi le relazioni sociali, economiche, culturali e civili a definire le qualità di una determinata persona dentro e fuori la rete.

Certo può capitare che un criminale dissimuli virtualmente l’identità reale per sfruttare a suo vantaggio rapporti “professionali” e amicizie online; ma nella maggior parte dei casi l’identità deviante è trasportata dal reale al virtuale per cercare consenso al proprio modo di essere. In tal caso la frequenza degli accessi è contrassegnata da una prassi di “impression management”, ovvero di esposizione pubblica degli sviluppi psicologici e sociologici posti alla base delle interazioni sociali di un gruppo di simili. Il delinquente, ma anche chi è suggestionato o condizionato da una modo di agire deviante, entra nella rete alla ricerca di una “reciprocità” per condividere pensieri, atteggiamenti, gusti, consumi e stili di vita corrispondenti ad un’ottica di potere degenere e degenerante che agisce fuori e dentro il web.

Quanti mi piace ha ricevuto il video del pestaggio? Quanti simili “eroi” si sono rispecchiati nel picchiatore sardo? L’unica differenza rispetto al passato è che oggi, attraverso lo sharing dei cosiddetti indignati, siamo costretti, nostro malgrado, a vedere scene che un tempo appartenevano alla cronaca giudiziaria locale.

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