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Il teatro di Emma Dante: intervista alla regista e drammaturga palermitana

Emma Dante, autrice e regista teatrale, ci parla della sua compagnia, dello spazio che gestisce a Palermo e del suo primo lungometraggio che uscirà a breve.
A cura di Simone Petrella
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Emma Dante si è progressivamente affermata negli anni con spettacoli come Carnezzeria, mPalermu, Mishelle di sant'oliva, fino a raggiungere coproduzioni internazionali e a debuttare come regista di opera lirica con la Carmen diretta da Barenboim per il Teatro alla Scala di Milano. La sua poetica estremamente personale l'ha resa una delle voci più autorevoli e creative del panorama di ricerca italiano.

S.P. Lei gestisce ormai da tanti anni un luogo di ricerca teatrale – la Vicaria – e una compagnia. Sono realtà in evoluzione?

E.D. Molto. Degli attori storici con cui ho iniziato solo Italia Carroccio, con cui ho fondato il gruppo, lavora ancora con me, gli altri se ne sono andati. Viceversa alcuni attori sono entrati in compagnia nel corso del tempo; ad esempio Carmine è con noi da quattro anni (Carmine Maringola, protagonista di Acquasanta). E’ anche fisiologico che dopo dieci anni in un gruppo intervengano mutamenti, perché non si esaurisca: grazie a questo, la compagnia continua a essere molto forte.

S.P. Che ruolo hanno gli attori nel processo di scrittura dei suoi spettacoli?

E.D. Prima di allestire un testo io lavoro con gli attori in forma laboratoriale, sulla tematica che mi interessa. In questi laboratori è centrale l’improvvisazione: l’attore diventa elemento fondamentale della scrittura, portando in scena la sua esperienza personale, i suoi dubbi, le sue incertezze, i suoi pregi e i suoi difetti. È un mettersi in gioco totale, da parte di tutti noi. Per lo stesso motivo nei miei spettacoli non è quasi pensabile che un attore venga sostituito da un altro: io lavoro su quell’attore lì, da cui nasce quel personaggio lì che è diverso da tutti gli altri essendo cucito addosso a quel tipo di persona. L’attore diventa genitore del personaggio, è difficile poi cercare qualcun altro che lo adotti.

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Capita spesso, invece, che qualche attore entri anche solo per un progetto nel gruppo. La nostra non è una compagnia chiusa, neanche da questo punto di vista, gli attori della compagnia sono fissi e con loro costruisco un alfabeto dello spettacolo, però accogliamo attori con esperienze anche molto diverse dalla nostra; per noi l’ospite è una fonte inesauribile di conoscenza, per cui non imponiamo le nostre regole, ci adattiamo alle sue. È un modo di crescere.

S.P. La scelta linguistica è determinante nei suoi spettacoli. L’utilizzo del dialetto è una scelta stilistica o una necessità dettata dal lavoro sulle persone con cui lavora?

E.D. Entrambe le cose. Il dialetto è la lingua della pancia, dell’istinto, la lingua che viene dal basso. Ma è anche il mio stile. I miei personaggi parlano una lingua sgrammaticata perché racconto storie sgrammaticate, sgradevoli; non mi viene in mente di raccontarle con un italiano puro, in dizione, mi sembrerebbe una follia. Uso anche l’italiano, ma è sempre sporcato dall’inflessione di dialetti del sud. Scelgo in particolare il napoletano, il siciliano e il pugliese; mi piacciono molto questi tre dialetti.

S.P. Crede che il suo approccio narrativo al teatro sia variato nel tempo?

E.D. Io penso di essere molto portata al cambiamento. Il teatro che faccio è un teatro che sperimenta il cambiamento, parla di questo, parla di qualcosa che cambia col tempo e si mette in relazione con la contemporaneità; e poiché il mondo intorno muta, deve cambiare il nostro teatro. È fisiologico, è necessario. Proprio perché non è un’arte che rimane, è un’arte che va via, è un’arte che viene consumata da noi e da chi la vede, è come un pasto, per cui devi assolutamente usare degli ingredienti contemporanei o trovare ricette antiche che funzionino ancora. A me, per esempio, piace il cocktail di gamberi con la salsa rosa e Carmine dice sempre che è un piatto degli anni ’70! Però è buono. In effetti io uso molto il passato e la tradizione, per fare il mio teatro.

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S.P. Lei ha fatto esperienza di opera lirica ed ha messo in scena spettacoli con canzoni. Qual è il suo rapporto con la musica?

E.D. Per me è un elemento di lavoro fondamentale. Collaboro spesso con i fratelli Mancuso, musicisti che hanno composto anche l’unica musica del mio film: un canto con cui la storia si conclude. Una musica straziante.

La musica è importante perché per me non è una colonna sonora, deve essere drammaturgia, un intervento drammaturgico; serve a creare l’atmosfera, ad aiutare gli attori a essere nella situazione. Quando diventa un appoggio troppo forte la uso in prova, ma per lo spettacolo la elimino. La musica deve dialogare con la storia e i personaggi, e quando lo fa, funziona.

A me piace molto la musica, ma quando la metto nei miei spettacolo soffro, fatico molto ad accettarla. Il film che sto facendo, invece, non ha musica. Al cinema mi sembra più facile rinunciare alla musica, in questa mia prima esperienza cinematografica mi è venuto spontaneo; c’è musica soltanto nel finale perché quella musica che arriva, quel canto che arriva, è la tesi di tutta la storia, è parte della sceneggiatura.

 S.P.Che rapporto hanno cinema e teatro nella sua poetica?

E.D. Il cinema è totalmente diverso dal teatro. Nel cinema si attua una sintesi che con il teatro non si può ottenere e soprattutto il cinema ti apre a un mondo reale. In teatro hai bisogno di lavorare sui simboli, ti dà poca libertà, il cinema molta di più.

Sto montando ora il film. Il montaggio è un’ulteriore riscrittura del film; credo che il film si riscriva più volte: in sceneggiatura, poi quando si gira, poi al montaggio e poi c’è il film che vedono gli spettatori, che sicuramente è diverso da quello che vedo io.

In montaggio ho eliminato il 50% delle scene pensate, ho materiale avanzato per fare un altro film intero! In questo per me il cinema è molto simile al teatro: quando preparo uno spettacolo asciugo molto le idee di partenza, lavoro per composizione di immagini, le monto e elimino materiale anche molto bello che il pubblico non vedrà mai, perché non serve alla storia.

La cosa più difficile per un artista è rinunciare alla bellezza delle cose che produce: se riesce a fare questa rinuncia, l’opera avrà un suo senso. È molto difficile, ma fa parte del gioco. E sono materiali a cui rinunci per sempre, perché non possono servire ad altro se non alla cosa per cui erano stati pensati; la loro mancanza, la loro distanza, la loro assenza si sente nello spettacolo o nel film. Il materiale che elimini ha a che fare con la depurazione di qualcosa che, senza gli elementi che hai filtrato, non esisterebbe. È materiale che serve a quello che resta, non è vero che non serve.

S.P. Lei è stata in polemica con diverse istituzioni. Negli anni, con il suo progressivo affermarsi in teatro, questa situazione è cambiata?

No. Questa cosa mi isola sempre di più, purtroppo. Non la consiglio a nessuno.

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S.P. Qual è il suo rapporto con l'estero?

Ora c’è crisi ovunque, forse c’è una più bassa percentuale di finanziamenti tolti, ma c’è crisi ovunque. Anni fa facevamo tournèe lunghissime, ora no; i teatri fanno fatica, soprattutto per il teatro che facciamo noi, ancora legato alla sperimentazione. Dico “ancora” perché nel momento in cui sarà istituzionalizzato noi saremo morti, quindi meno male che è ancora sperimentazione! Però facciamo molta fatica.

S.P. Il teatro è ancora concepibile come forma d'arte?

E.D. Diciamo che in Italia non si scenderebbe in piazza per un teatro che chiude, mentre se si spegnesse la televisione forse sì. L’Italia è un paese che in questi anni è stato abbrutito, è in regressione.

Però c’è da dire che non si può vivere senza, l’umanità non può vivere senza il teatro. Forse un giorno si potrà vivere senza il cinema, ma senza il teatro è impossibile. Almeno finchè esiste l’uomo, finchè esiste lo specchio, il riflesso di noi stessi che respira, vivo come noi. L’uomo ha bisogno dell’uomo, di essere riconosciuto, di vedersi difronte e farsi delle domande, per cui non penso che il teatro morirà mai. C’è una crisi ideologica, questo sì, ma io credo che il teatro, quello che si può fare con una lampadina in scena, non tramonterà mai, perché non è la mancanza di soldi o l’assenza della borghesia in sala o la moda a fermarlo. Non è legato alle mode il teatro. La sua vocazione principale è quella di indagare nell’umano, nella forma vivente.

S.P. Progetti futuri?

E.D. Sto lavorando a uno spettacolo a cui tengo molto, grande, con undici attori in scena; bisogna trovare i canali giusti per produrlo. Noi come compagnia possiamo tenere vivi spettacoli in cui ci sono due, tre, massimo quattro attori e in cui la scenografia sta in una valigia, ma quando si tratta d avere idee su storie più complesse come questa – Le sorelle Maccaluso – storia femminile di una famiglia di vivi e di morti che convivono, abbiamo bisogno di sostegno. Non so ancora chi lo produrrà nè quando andrà in scena, la situazione è molto complessa. Ma bisogna essere liberi. Se un artista ha bisogno di un palcoscenico attrezzato, di una scenografia pazzesca perché altrimenti non può esprimersi, io credo che l’artista abbia ragione. Né se un artista ha bisogno di undici persone in scena gli si può dire “no, pensalo con due”. Io sto pensando a un lavoro laboratoriale molto lungo, ma l’importante è che mi paghino il tempo. Penso a uno spettacolo senza scenografia, ma ho bisogno di mesi in più per prepararlo. Per cui non sto lavorando in ristrettezza, la sua genesi deve essere rispettata, così come le esigenze che io ho in partenza. Non ci sono sconti nell’arte. Non ci possono essere sconti, non puoi chiedere a un artista di farti uno sconto perché c’è la crisi; è una follia.

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