Il Sottosegretario alla Cultura vuole vietare i testi rap violenti, ma non è la musica il problema
Il Sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi, intervenuto nel corso della trasmissione Non Stop News, su RTL 102.5, è ritornato su uno dei temi più cari alla Politica, ripreso già lo scorso novembre in occasione delle parole di Cristiana Capotondi sul machismo legato alla violenza nel rap italiano. Il politico, proprio ricordando gli appelli lanciati da Capotondi e altre artiste, è ritornato sulla correlazione tra rap/trap e violenza in Italia, un dualismo che sembra mantenersi in piedi, nelle parole di Mazzi, soprattutto per una lettura monodimensionale della società, in cui il rapporto di causa-effetto tra i testi dei brani e la violenza descritta è diretto, chiaro, senza sfumature fictionali.
Mazzi infatti sottolinea quanto siano "sconcertanti" alcuni testi, aprendo anche una porta sul management discografico: "Come mai questi testi vengano editati e pubblicati da importanti case discografiche, che spesso sono multinazionali e all'interno delle quali vige una cultura del rispetto delle donne e dell'uguaglianza sul lavoro. Come possono queste case discografiche trasgredire il loro stesso codice etico pubblicando testi così violenti?". Qui sembra aprirsi la prima crepa sull'assunto che i testi rispecchiano la violenza perpetrata dagli stessi autori, sottolineando come i progetti pubblicati sotto etichetta discografica, sopravvivono a modifiche e controlli che alterano irrimediabilmente il messaggio.
Un altro aspetto sottolineato da Mazzi, che propone un dialogo costruttivo attraverso un incontro "Quando la musica diventa violenta", è il solito paragone con gli anni '60, gli anni '70 in cui è cresciuto: "La musica è la prima fonte di formazione culturale; sono stato fortunato ad aver incontrato la musica dei cantautori, e rispondo ai ragazzi del rap e della trap che, se questi artisti fossero fermati a fotografare la realtà degli anni '70, che musica avrebbero lasciato? Invece, con i loro testi, hanno dato speranza". La natura nostalgica del racconto di Mazzi prevede anche una lettura dell'evoluzione della società perfettamente granitica, in cui la trasformazione del mondo circostante non tocca minimanente i caratteri identitari dell'attualità.
L'appello di Mazzi si conclude con la richiesta di un campo largo, in cui si riescano a sedere "il mondo della musica, le case discografiche, gli editori e la SIAE" per arrivare a un "protocollo dove ogni operatore del settore si prenda un impegno affinché questo fenomeno (della violenza) venga in qualche modo arginato". Anche perché "non è che il fatto di far parte di un genere musicale renda meno violento il contenuto del testo". La linearità del pensiero di Mazzi, trasmesso a più riprese negli ultimi mesi, non cede al minimo dubbio, anzi riconferma la lettura passata, in cui la violenza da fenomeno sociale viene ribaltato a fenomeno musicale, e i testi delle canzoni non sono altro che una testimonianza ultra vivida e reale della violenza perpetrata.
Le parole di Mazzi arrivano dritte, fendenti allo status quo dell'industria discografica, che solo qualche mese fa, nelle parole di una delle sue più illustri studiose e protagoniste, Paola Zukar, avevano ispirato questa risposta: "Fatelo pure. Mettetevi d’accordo con Fimi, Spotify, YouTube, le case discografiche etc e fermatela alla radice. Senza appello. E così certamente salverete il mondo, statene certi. Tolta la musica rap, saremo tutti educati, saremo tutti cittadini rispettosi e a modo. Non fermatevi però, andate oltre. Rimuovete anche i classici come Delilah di Tom Jones, con cui sono cresciuti i nostri genitori, che racconta la storia di un uomo che uccide una donna dopo aver scoperto di essere stato tradito. Non limitatevi a stoppare la musica, mi raccomando. Eliminate anche serie tv come Gomorra così finalmente estingueremo la piaga della camorra e saremo liberi. Togliamo dalle piattaforme e dai cinema, impedite proprio che escano, i film di Quentin Tarantino, in modo da arginare la violenza nelle strade. Vietate le minigonne così il numero degli stupri diminuirà vertiginosamente. Togliete tutto. Pazzesco, signori della corte, che nessuno ci abbia pensato prima".
Il tentativo di ribaltare il rapporto tra violenza e musica nella società, ponendo la società come vittima della musica violenta e non la musica come vittima di una società violenta, è l'obiettivo di una parte del pubblico che cerca di indicare nel dito il problema, senza alzare affatto lo sguardo alla luna. Una ricerca disonesta di appiattire, più che di comprendere, influenzare più che accogliere: perché se c'è un problema è la riconoscibilità dei codici linguistici utilizzati in questo genere. E se in passato, il bisogno di escludere un genere musicale da palchi più ampi, non ha fatto altro che creare un terreno fertile, una controcultura, che poi negli ultimi 10 anni ha conquistato e dominato le classifiche degli ultimi 10 anni, il tentativo adesso sembra quasi anacronistico, legato a un mondo "ribelle" del rap, un underground che non esiste.
Un fenomeno non solo italiano, nel contrasto tra rap e politica, che negli Stati Uniti ha visto ritornare i riflettori su scrittrici come Tipper Gore, moglie dell'ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore. Questo non vuol dire distogliere lo sguardo dagli eventi violenti che capitano ad alcuni protagonisti della musica rap. Anche perché i contenuti, fictionali o meno nei testi, hanno pur sempre scaturito nel rap la ricerca di un realness, che è legata al personaggio e non alla musica in sé: un tentativo di validazione e di riflesso nel pubblico. Uno degli esempi più evidenti è ciò che è accaduto a Shiva negli scorsi mesi, quando la sua comunicazione social sulla sparatoria occorsa nei pressi del suo studio discografico, aveva l'obiettivo di glorificare la sua vittoria e la fuga di chi aveva tentato di aggredirlo.
Una dimensione persona/personaggio che si autodetermina non per la violenza descritta nei suoi brani, ma per il gesto condannabile. Una giustificazione per la propria realness musicale che fa parte dell'immaginario rap, ma che non collima più con il pubblico, soprattutto quello più giovane, più intento a scimmiottarne le sembianze che ad assumerne i caratteri. Perché la corsa all'oro musicale, attraverso la musica rap, ha aperto varchi in cui molti stanno cercando di entrare, ricercando in maniera ossessiva l'algoritmo per la canzone perfetta da classifica. E dove si diluisce il rap, pensare di poter censurare non fa altro che aizzare, che polarizzare: dare un nuovo nemico al rap, non più immaginario come per alcuni rapper, potrebbe solo rinvigorire la sua posizione.