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Il sito archeologico palestinese dove si scava in mezzo alla guerra arabo-israeliana

La seconda campagna nel sito palestinese di Beit Sahour, dove si tramanda che gli angeli annunciarono ai pastori la nascita di Gesù, è stata segnata dalle nuove ostilità in Medio Oriente. Frate Simone Schiavone co-responsabile di cantiere con il prof Castiglia: “Lo scavo archeologico in questi territori non è solo ricerca, ma significa anche collaborare allo sviluppo sociale”.
A cura di Claudia Procentese
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La campagna scavo nella città palestinese di Beit Sahour, a tre chilometri da Betlemme, è finita venerdì 6 ottobre. Non c’è stato nemmeno il tempo di stilare i nuovi dati raccolti sul monastero d’età bizantina e scambiarsi le impressioni post-missione. All’alba del giorno dopo, sabato 7, la brutale offensiva di Hamas nel sud d’Israele ha scombussolato i piani dell’équipe di archeologi e ricercatori del Pontificio istituto di archeologia cristiana (Piac) impegnata nelle indagini presso il cosiddetto Campo dei pastori, cioè il luogo in cui secondo la tradizione evangelica i pastori avrebbero vegliato durante la notte santa. I sei studiosi, in perenne contatto con il Consolato italiano e la Nunziatura apostolica, domenica 8 vengono trasferiti a Gerusalemme per poter finalmente rientrare in Italia nel giro di qualche giorno. Tutti sani e salvi, ma restano nell’animo le immagini indelebili dei crimini efferati di una contesa senza fine e nel cuore il desiderio di ritornare quanto prima in Terra Santa per continuare un lavoro che non consiste solo nel documentare, ma punta a valorizzare un territorio stretto nella morsa di povertà e violenza. A Beit Sahour sono ben evidenti gli effetti della costruzione della barriera di separazione tra Israele e Cisgiordania che penetra profondamente nella West Bank. Un confine fisico, giustificato da urgenze securitarie, ad appena 200 metri dal sito archeologico. Non un muro ma un corridoio militare, marcatore di spazio e sguardo di costante controllo, che addossa ai palestinesi la privazione di un libero passaggio per Gerusalemme e per i territori israeliani. Una frontiera che è cicatrice.

Frate Simone Schiavone possiede i toni sereni e pacati di chi ha fede, ma le sue parole danno la dimensione del disastro umanitario che si sta verificando in Medio Oriente. Di Bovino nel Foggiano, gli studi in archeologia a Napoli, il lavoro in Soprintendenza a Montella di Avellino, il soggiorno presso i frati che doveva essere breve ma si prolunga per tre anni, la chiamata vocazionale alla vita monastica dopo aver lasciato la fidanzata Valeria che diverrà poi clarissa missionaria, la specializzazione a Lecce, il religioso francescano, 45 anni, ora al convento di Sant’Antonio abate di Portici, spiega la missione pluriennale del Piac di cui è co-responsabile di progetto e scavo con il prof. Castiglia. Lo fa illustrando il dato scientifico, tuttavia non tralasciando mai la bussola che orienta verso carità e compassione. Non solo ricerca, infatti, ma uno degli scopi principali del progetto a Beit Sahour è quello del “rilancio umano, sociale ed economico della realtà palestinese circostante, aiutando le realtà locali attraverso il potenziamento di nuovi percorsi di pellegrinaggio e tramite lo sviluppo di competenze tecnico-scientifiche da applicare in situ”. I resti del monastero bizantino, che sorgeva nell’area oggi delimitata dal moderno santuario (costruito nel 1953, su un’altura già abitata ai tempi di Gesù, e a forma di tenda di pastori nomadi, proprio per ricordare l’epifania di duemila anni fa), sono riemersi a marzo scorso dai preliminari lavori di ripulitura, dopo settant’anni di abbandono del sito. Con la seconda campagna, quella autunnale, invece, è iniziato lo scavo vero e proprio. Si riuscirà a riprendere l’opera nonostante l’assedio di Gaza e le stragi sui civili?

La lieta novella del Vangelo “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia” è comunicata ai pastori. I pecorai rappresentano gli emarginati, i poveri, gli ultimi. Esclusi dalla società perché considerati impuri, eppure vengono scelti dal Dio cristiano per ricevere l’annuncio della nascita dell’atteso Messia, quel Gesù che sarà pastore di uomini. Così come la notizia della resurrezione verrà affidata alle discriminate donne. Similitudini all’inizio e alla fine dei Vangeli. Due fatti che oltretutto si svolgono entrambi in una grotta illuminata a giorno. Fede o no, esiste una storia dei luoghi. E l’archeologia ne studia il passaggio umano.

Frate Simone, com’è andato il rientro in Italia?

Travagliato, ma alla fine la solidarietà tra gli italiani rimpatriati con il volo militare atterrato a Pratica di mare ci ha permesso di superare il momento delicato senza particolari traumi. Ero nel gruppo dei più giovani, insieme a me due ballerini che lavorano per una compagnia di danza in Israele, due studenti Erasmus, un geofisico impegnato in un post dottorato. Abbiamo avuto modo di chiacchierare, stemperare un po’ la tensione, sorridere, aspettando l’imbarco. Poi, dopo ore di preoccupazione, sull’aereo siamo crollati per la stanchezza, nonostante il rumore assordante dei motori.

Il solidarizzare come risposta alla guerra. Ma che situazione avete lasciato lì, nei territori palestinesi?

Sì, il dialogo, lo scambio reciproco rappresentano l’unica arma per la fratellanza. Durante lo scavo ho vissuto nel convento di Santa Caterina a Betlemme, adiacente alla basilica della Natività, ma domenica pomeriggio, il secondo giorno di conflitto, dopo aver compreso che la situazione non era più sicura, è sorta la necessità di uscire al più presto dai territori palestinesi e garantirci un corridoio per Tel Aviv. Quindi ci hanno trasferito a Gerusalemme e lì ho dimorato nel convento francescano della Custodia di Terra Santa. All’interno regna un clima sereno, anche perché i frati della città vecchia di Gerusalemme sono abituati agli attentati e al coprifuoco. A me capitò nel 2017: nell’imminenza della festa dell’Immacolata il frate guardiano diede disposizione di non uscire per due giorni dal convento.

Si riesce a convivere con questa tensione?

Non ci si fa mai l’abitudine, ma quando hai un lavoro, una famiglia, una vita in un determinato luogo, bisogna per forza adattarsi, è lo spirito della resilienza. Posso immaginare che per una persona vissuta in Occidente e in tempi di pace è difficile affrontare un quotidiano con il perenne senso di pericolo, come lo è stato per gli studenti che per la prima volta erano con me nel cantiere di scavo a Beit Sahour, che dista solo 200 metri dal confine armato israeliano.

Qual era lo stato d’animo dopo l’attacco di Hamas?

Sono state ore di angoscia, di sospensione, in cui si sperimenta il lato peggiore del genere umano, cioè l’egoismo, la mancanza di empatia per le popolazioni sofferenti. Ecco, ora posso rispondere meglio alla domanda di prima: abbiamo lasciato lì la gente del posto che continua a soffrire, ad essere la vittima reale di una guerra cieca. Una belligeranza che non risolve i contrasti, anzi li accresce. Le guerre creano solo sconfitti, mai vincitori: tutti sono bersaglio.

Parliamo di questo scavo, dove si trova esattamente il sito archeologico?

A Beit Sahour, circa tre chilometri da Betlemme, dove le evidenze archeologiche raccontano di un monastero bizantino. Le vestigia si inquadrano negli anni centrali dell’affermazione del cristianesimo antico, cioè IV-VI secolo, e comunque non oltre l’VIII secolo quando il complesso fu occupato e distrutto dagli Omayyadi, che cercarono perfino di cancellare i segni cristiani scalpellando e abradendo le pietre sulle quali si trovavano.

Come si è articolata la campagna scavo?

Il progetto si svolge in piena sinergia con la Custodia di Terra Santa e con il Ministry of Tourism and Antiquities of Palestine. Una missione quadriennale che afferisce alla cattedra di Topografia dell’Orbis Christianus Antiquus e Metodologia della ricerca archeologica del Piac, sotto la direzione scientifica di Philippe Pergola e il coordinamento mio e del professor Gabriele Castiglia. Quest’ultima campagna di settembre-ottobre è stata la seconda di quest’anno, ma la prima attività di scavo. A marzo siamo intervenuti soltanto per ripulire e aggiornarne la cartografia con laser scanner e droni dell’area archeologica messa in luce da padre Virgilio Corbo, archeologo che ha lavorato qui con metodo stratigrafico nel 1951-’52. Tutto si è fermato con lui, a parte una breve parentesi tra la fine degli anni ’80 e gli inizi ’90 durante la quale alcuni fratelli religiosi, improvvisatisi archeologi, hanno messo mano al sito in modo poco scientifico e non sistematico.

Quindi l’attività del 2023 viene dopo settant’anni di abbandono del sito?

Sì, padre Corbo ha messo in luce una parte di monastero da lui datato tra il IV e il VI secolo. La parte che conosciamo oggi è soprattutto quella produttiva dove ci sono i pressori, le vasche di decantazione per l’olio, e un ambiente liturgico, composto da due absidi di due periodi differenti con un’aula antistante. L’intero complesso sussiste sopra un sistema di gallerie e di grotte preesistenti, ovvero più antiche. I cunicoli sotterranei erano utilizzati dai monaci probabilmente come collegamento tra le varie parti dello spazio monastico, una sorta di antica subway. Le grotte, invece, sia all’interno dell’area archeologica che in quella circostante, venivano usate per il ritiro alla vita ascetica e contemplativa, sono le famose laure bizantine, le celle che accolgono i monaci in fuga dal mondo.

Perché l’area viene chiamata Campo dei pastori?

Il Campo dei pastori è il luogo dove, secondo i Vangeli, i pastori si sono fermati prima di arrivare alla grotta della natività, cioè dal quale hanno visto la stella cometa. È, per l’appunto, caratterizzato dalla presenza di grotte, più o meno grandi, adoperate per la pastorizia. All’interno dell’area archeologica c’è una lunga galleria che porta ad una grotta enorme ubicata sulla parte limitrofa del sito, mentre all’esterno, nella zona oggi frequentata dai pellegrini, è visibile una serie di grotte dentro le quali è possibile fermarsi in preghiera o celebrare messa.

Il monastero bizantino, perciò, è nato nel rispetto di questa tradizione?

Esatto, ha avuto origine per conservare la memoria della sosta dei pastori. In pratica, le grotte, utili per ricoverare le pecore, sono state usate successivamente dai monaci come spazi abitativi e di preghiera. Ricordiamo che nello stesso periodo in Palestina è avvenuto il passaggio dal monachesimo eremitico a quello cenobitico, cioè di comunità. Ed è verosimile che durante tale fase, nel corso del III-IV secolo, si sia formato il monastero.

Campo dei Pastori in Palestina
Campo dei Pastori in Palestina

E poi cosa è successo?

È stato pian piano abbandonato, ma la potenzialità archeologica del sito, legata ai ruderi ancora in vista, è stata identificata nel 1858 da un armatore francese di origine italiana, Carlo Guarmani, il quale compra questo terreno e inizia le prime indagini archeologiche. Agli inizi del 1900 il terreno viene venduto ai francescani e negli anni ’50 padre Corbo riprende le esplorazioni.

Insomma per ben due volte le indagini si fermano per settant’anni e poi riprendono. Come sono ripartite quest’ultima volta?

Sono arrivato per la prima volta a Gerusalemme agli inizi di ottobre del 2017, ordinato sacerdote da appena sei mesi, per approfondire l’archeologia biblica. A metà novembre ho visitato il Campo dei pastori durante una cerimonia di insediamento stabile di una nuova comunità di frati, che fino ad allora vivevano a Betlemme e facevano i pendolari per raggiungere Beit Sahour e accogliere i pellegrini del santuario.

Non conosceva il posto?

No, mai visto prima. Dopo la messa e il momento di festa, mentre mi avviavo a prendere l’autobus, il padre custode, sapendomi archeologo, mi indicò il sito dicendomi “è abbandonato, vedi cosa puoi fare”. Non ho risposto, ignorando di cosa si trattasse. Tornato in Italia, iscrittomi al Piac per il dottorato, due anni fa il rettore don Stefan Heid venne a trovarmi al cantiere archeologico dei Santi Apostoli nella Curia generalizia del mio Ordine dove preparavo la tesi e davanti ad una birra mi propose di suggerire un sito in Medio Oriente per una nuova missione di scavo, finanziabile grazie ad alcuni fondi non ancora spesi. Mi sono venute in mente le parole del padre custode a Betlemme e da lì è nato il progetto.

L’archeologia come seconda vocazione?

Nulla capita a caso. Anche questa è stata una chiamata.

A settembre, dunque, la prima attività di scavo. Qualche novità?

Abbiamo approfondito l’esame dell’area liturgica del monastero, già indagata da padre Corbo, ricordando che lui ha scavato sì, ma ha pure interrato per predisporre il sito alla fruizione dei pellegrini. Siamo arrivati fino al banco di roccia, riportando alla luce una cava di pietra. Cioè una parte di questa roccia naturale conserva segni evidenti dell’estrazione dei blocchi di pietra. Cosa che Corbo sicuramente avrà visto, ma che forse settant’anni fa non aveva tanta importanza.

Oggi, invece, viene presa in considerazione?

L’archeologia non si occupa più esclusivamente del bello e prezioso, ma anche degli aspetti preparativi del costruito. Che sono ugualmente espressione della civiltà di un popolo. E quindi documentare una cava con tracce di lavorazione è una prospettiva dell’edilizia non più trascurabile. Ancora non sappiamo, però, se questa cava fosse funzionale alla costruzione del monastero o sia molto più antica rispetto all’occupazione bizantina, poi abbandonata. Del resto ci sarà molto da capire: non sappiamo dove abitavano i monaci, dove seppellivano, dov’era la cucina, il refettorio.

Va da sé che saranno necessari altri sopralluoghi. Quali sono le previsioni?

Ritornerò in Terra Santa non solo per il progetto del Campo dei pastori, perché nel frattempo sto collaborando con lo Studium Biblicum Franciscanum, per il quale ho lavorato sulla ceramica di un recente scavo nel santuario del Getsemani. Inoltre per novembre è in programma un rilievo con georadar, insieme al Cnr di Napoli, su tutti i terreni circostanti l’area archeologica del Campo dei pastori e farò da guida ad un gruppo di pellegrini. Ovviamente le scadenze slitteranno, bisognerà attendere, la situazione è precaria e la gente è impaurita.

È ottimista.

Sono fiducioso, è una fase accesa del conflitto, ma ne seguirà una di equilibrio.

Cosa intende dire?

È da sempre una convivenza difficile con alti e bassi. Quando non c’è il rispetto dei diritti di entrambi si arriva allo scontro frontale. La verità sta nel mezzo, ma è una terra di cui gli ebrei si sono riappropriati perché la provincia romana era di Siria Palestina. Di certo adesso e quanto prima è importante che israeliani e palestinesi abbiano un futuro pacifico di esistenza dignitosa.

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A proposito di convivenza, hanno partecipato allo scavo di Beit Sahour anche studenti e studentesse arabe dell’Università di Bethlehem. Perché questa scelta?

È un aspetto fondamentale del progetto perché queste realtà accademiche non hanno i soldi per avviare una ricerca e quindi la nostra presenza è per loro una grande opportunità. L’idea è quella di indurre gli studenti e le studentesse a familiarizzare con il contesto di scavo, affinché nel prossimo futuro si possano creare occasioni di inserimento lavorativo. È nell’interesse anche della Custodia dei francescani. Perché lo scavo archeologico in questi territori non è fine a se stesso, ma significa collaborare allo sviluppo sociale con il coinvolgimento di professionalità locali.

Il sito archeologico è nella proprietà francescana. Il vicino santuario è meta di pellegrini?

Pensi che durante la pandemia Covid ha registrato il numero di visite più alto tra i luoghi di fede della Terra Santa, perché si tratta di uno spazio molto ampio, aperto. Ed è ben organizzato: in un giorno i frati riescono ad ospitare fino a cinquanta gruppi da mattina a sera, garantendo fino a 36-40 messe al giorno. Inoltre i visitatori del santuario non sono solo cattolici, ma anche protestanti e ortodossi.

Perché?

Perché è un luogo dove si respira il sacro, senza distinzioni. Accanto al santuario ci sono le grotte, queste cappelle aperte che si trasformano in luoghi di raccoglimento personale o di preghiera collettiva con i canti, dove si celebrano i culti di ogni confessione, dove si cerca e trova pace.

E il sito archeologico come si inserisce in tale contesto?

Era accessibile fino a prima dell’emergenza Covid, al momento è chiuso perché passerelle e tettoie sono ormai obsolete e fuori da ogni criterio di sicurezza, oltre che antiestetiche. È in previsione una musealizzazione con nuova pannellistica e coperture più moderne. La Custodia di Terra Santa, inoltre, ha in animo un programma di valorizzazione e riqualificazione di tutta l’area santuariale con la realizzazione di cappelle di culto più grandi e strutturate, al momento tre sono in corso d’opera. Il restyling include una rilettura del percorso di visita di tutto il santuario, insieme ai resti archeologici per evitarne l’abbandono e il saccheggio.

Lei conosce i tormenti di questa terra. Come li ha affrontati?

Sono un uomo di Dio, evito di dare un’interpretazione divisiva del mondo, sono solidale con l’una e l’altra parte. La missione umanitaria è più importante di quella archeologica. La gente da me si aspetta una voce conciliante da figlio di San Francesco, uomo di pace.

Una domanda per concludere: l’archeologia può servire per addentrasi meglio nel mistero del Dio che si è fatto uomo, cioè può offrirci i riscontri reali sul Gesù storico?

L’archeologia biblica, non quella cristiana, può offrire testimonianze in tal senso. Si pensi alla casa di Pietro a Cafarnao, antica città della Galilea. In Occidente, invece, abbiamo testimonianze del cristianesimo solo a partire dal IV secolo.

E a Frate Simone questi riscontri, tracce del passaggio terreno di Gesù, servono per credere?

No.

Un no deciso, che non ammette repliche. La mia, comunque, era una provocazione.

(ndr scoppia in una risata) Lo avevo capito. D’altronde, ho avuto la prima chiamata vocazionale a dieci anni, senza bisogno di conferme archeologiche.

Mi faccia allora completare la provocazione che serviva per introdurre il delicato tema del rapporto tra scienza e fede. Per chi non ha fede queste tracce possono diventare prove per credere?

Il dato materiale, che sia reperto, monumento o opera d’arte, può essere un veicolo per arrivare all’incontro con Cristo, ma la fede va oltre, è esperienza più intima e profonda. È conoscenza interiore in cui lo stesso dato materiale perde di significato. E in queste terre l’archeologia è maggiormente mezzo. Un ponte per costruire il dialogo tra arabi e israeliani, tra cristiani e musulmani. Per osare la pace.

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