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Il settantesimo anniversario della Resistenza pensando ai migranti

La Liberazione è valore fondante della Repubblica italiana, emblema di un’incessante storia di riscatto civile (dalla lotta al nazifascismo alla lotta alle mafie). La celebrazione, però, è macchiata da un vergognoso razzismo classista. Gli italiani, popolo di migranti succube di discriminazioni razziali, non sono più in grado di riconoscere nei diseredati della globalizzazione l’immagine del loro recente passato.
A cura di Marcello Ravveduto
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Se penso al 25 aprile mi vengono in mente i migranti del Mediterraneo. Stipati in un’imbarcazione, come in una galera, subiscono soggezioni fisiche e morali, punizioni corporali e persino la morte, alla ricerca di una propria liberazione. Vite sottoposte alla tirannia della povertà e di aguzzini che sfruttano i loro corpi emaciati, così come i nazisti con gli ebrei nei campi di concentramento. I sopravvissuti giungono in una terra che li disprezza, li umilia, li classifica non tanto, e non più, in base al colore della pelle, quanto allo loro origine di miserabili.

Liberazione da chi, da cosa? I totalitarismi della globalizzazione sono addirittura più temibili di quelli del Novecento perché agiscono subdolamente, celandosi dietro l’apparente trionfo della democrazia. Per questa si batterono i nostri partigiani e invertirono la rotta di un destino votato alla sconfitta, trasformando un popolo di pecoroni in eroi, pochi ma certi, meritevoli dell’attenzione della Storia. Gli angloamericani (invasori/liberatori), nonostante tutto, non poterono fingere di non vedere il sacrificio dei tanti giovani che avevano rinunciato al tepore della casa, salendo la montagna, invece di attendere alla finestra l’arrivo della nuova era.

A migliaia morirono, lasciati sul ciglio di uno spoglio sentiero con un cartello al collo recante la scritta “banditen”. Scelsero quella strada per sottrarsi alla leva di una Repubblica fantoccio, governata dal burattino del Fuhrer. Cantavano “Bella ciao” mentre si inerpicavano sui pendii scoscesi e quando attraversavano i campi incolti punteggiati dal rosso dei papaveri.

A loro modo migravano da un Paese all’altro: partivano dall’Italia fascista per andare incontro, col sangue e con la morte, all’Italia democratica. Non c’erano barconi da affondare, né integralismi da combattere, c’erano, però, i nemici, quelli delle Brigate nere e la razza superiore degli ariani (che non ci fece un bella figura ad essere battuta da uomini piccoli, sporchi e neri). Quei giovani resistettero al freddo, alla fame, alle persecuzioni, alla giustizia sommaria in nome di un avvenire del tutto incerto. E ancora mi tornano in mente le immagini dei migranti e di un genocidio che si rinnova in altri corpi ischeletriti e facce emaciate, la cui unica colpa è la voglia di pensare a un futuro fuori dalle guerre tribali, religiose, etniche e commerciali.

E che dire del Mezzogiorno? A lungo è stato considerato un buco nero della gloria resistenziale. Si sono volutamente dimenticati i numerosi atti di ribellione e il tributo di sangue che condussero alla libertà già nel 1943, immediatamente dopo il tragico 8 settembre (Bari, Barletta, Caserta, Cisterna di Latina (LT), Isernia Matera, Messina, Modugno (BA), Napoli, Palermo, Pontecorvo (FR) quelli più noti). In questa lingua di terra, piattaforma di culture e popoli millenari, è trasmigrato l’anelito di Liberazione da cui trae origine la Repubblica italiana.

Basterebbe segnare sulla carta geografica dello Stivale un puntino rosso, indicando la provenienza delle vittime, per comprendere come nel periodo repubblicano, rispetto alla Resistenza, sia avvenuta una inversione di tendenza. Se i luoghi della Resistenza in massima parte, come attestano i monumenti commemorativi, rimarcano il maggior contributo del Settentrione alla lotta di Liberazione, la moltitudine di stele, obelischi, cippi, colonne, targhe e lapidi diffuse in tutto il Meridione rovescia la geografia dell’eroismo nazionale. La Resistenza alle mafie è il fattore di integrazione civile che ha consentito al Mezzogiorno di offrire alla Patria il sacrificio dei suoi martiri in difesa della democrazia repubblicana. L’antimafia può essere interpretata, quindi, come l’evoluzione del discorso nazionale, già aggiornato in chiave antifascista.

Fu Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica, il primo a parlare pubblicamente dell’antimafia come «Nuova Resistenza». Il giorno successivo alla strage di via D’Amelio, nell’aula del Consiglio Superiore della Magistratura, lanciò un appello al mondo politico: era necessario ritrovare il coraggio manifestato durante gli anni del terrorismo perché la democrazia è più forte di ogni violenza. «Resistere, resistere, resistere perché siamo dalla parte della libertà». Il capo dello Stato comparava esplicitamente la Resistenza all’Antimafia: come i partigiani avevano combattuto contro il nazifascismo per assistere al sorgere di un nuovo giorno, così lo «sventurato» popolo di Palermo si organizzava per superare la notte in vista dell’aurora.

Nando Dalla Chiesa, negli stessi anni, ipotizzò una «Resistenza civile» come opposizione alla sopraffazione mafiosa. L’aggettivo civile, in questo caso, più che richiamarsi ad una comunità di valori, era usato per indicare una distanza, anzi una vera e propria contrarietà alla politica. L’antimafia doveva essere un moto di indignazione collettiva, ispirato al movimento di opposizione al nazifascismo, che si organizzava spontaneamente sulla disponibilità dei cittadini a mobilitarsi, nel pieno rispetto delle libertà costituzionali, al fine di manifestare un pubblico e civile dissenso contro le mafie. Anche il costituzionalista Guido Neppi Modona ha sostenuto che, immediatamente dopo l’omicidio di Libero Grassi, si era creato un clima di Resistenza contro il totalitarismo mafioso, divenuto esplicita mobilitazione dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino.

Dopo settant’anni scendiamo ancora in piazza per seguire le orme di una storia incessante di riscatto civile; eppure, come in un incubo, le voci del mare ridestano il timore della vergogna che diventa sempre più forte se pensiamo al nostro passato di popolo migrante e discriminato dai luoghi comuni.

Ha scritto Maurizio Viroli: «Se vogliamo rafforzare la cittadinanza democratica, se vogliamo incoraggiare l’impegno dei cittadini a sostenere la liberà comune e a fare la propria parte di doveri sociali, allora bisogna rafforzare l’amore della libertà comune, non l’attaccamento ai valori etno-culturali della nazione. Abbiamo bisogno della patria, non della nazione. Non dobbiamo irrobustire l’italianità degli italiani proteggendo la loro unità etnica e culturale, ma lavorare sui valori politici della cittadinanza democratica e difenderli come valori che sono parte della cultura del popolo italiano. Fra “essere italiani” e “essere buoni cittadini” non c’è una correlazione necessaria: non c’è bisogno di essere genuinamente italiani, nel significato etno-culturale, per essere buoni cittadini, mentre si può essere purissimi italiani, ancora nel senso ento-culturale, ed essere pessimi cittadini».

E allora per stordirmi alzo il volume e ascolto Antonello Venditti:

«Ma che bella giornata di sole

Quanta gente per le strade muore

Quanti treni alla stazione

Ma per tornare a casa

E la chiamano liberazione

Questa giornata senza morti

Questo profumo di limoni

Dalle finestre aperte

E mio padre vivrà

Solo il sogno di questa terra

Perché quello che ha è ancora guerra.

E mia madre amerà

Questo sogno di prigioniero

Perché quello che avrà è il mondo intero.

E' una barca che naviga sulle onde del mare

Questo giorno di libertà

Tu non lasciarlo andare.

Questa terra sarà oggi e sempre nelle tue mani

Questo mondo vivrà nelle tue mani».

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