Il sessantesimo anniversario della rivoluzione cubana e le tre domande impossibili
Sapete cosa è la storia controfattuale? È la storia che cerca di descrivere il passato attraverso condizioni alternative a quelle reali, ponendo domande ipotetiche su eventi già accaduti.
Uno sforzo creativo che aggiunge ai fatti la fantasia d’immaginare percorsi insondabili. L’ipotesi più suggestiva di questo genere, su cui si sono cimentati romanzieri, cineasti e letterati è: “Cosa sarebbe accaduto se Hitler avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale?”.
Ora, nel giorno del sessantesimo anniversario dello sbarco a Cuba dei rivoluzionari (2 dicembre 1956), stipati nello yatch Granma e guidati da Fidel Castro e Che Guevara, proviamo a fare questo gioco. Un esempio? Sulla nave s’imbarcarono in 82, solo 12 rimasero vivi, tra i quali Fidel ed Ernesto. Come sarebbe cambiata la storia se nessuno dei ribelli fosse sopravvissuto? Le domande potrebbero essere tante e ognuna, come in un role play il cui finale cambia a seconda delle risposte dei giocatori, con un suo sviluppo completamente autonomo.
Proverò perciò a rispondere a tre ipotetiche domande: Cosa sarebbe accaduto se la rivoluzione non ci fosse mai stata? Quale evoluzione avrebbe avuto se Castro non avesse scelto il campo comunista? Cosa sarebbe successo se Guevara avesse avuto maggiore influenza nell’azione di Governo? Tanti altri potrebbero essere gli snodi su cui interrogarsi in circa 60 anni di regime castrista. Eppure le risposte a queste ipotesi inesistenti sul piano fattuale potrebbero aiutare a comprendere le origini, gli sviluppi, la maturazione e il declino della dittatura di Fidel.
Se non ci fosse stata la rivoluzione, molto probabilmente, Cuba sarebbe oggi ciò che sono l’Honduras e Panama, apparentemente più libere e ricche ma sicuramente sottoposte al dominio visibile e totalitario della narco-economia. Del resto, già negli anni del caudillo Batista, il cui potere era puntellato dal governo degli Stati Uniti, l’isola era una piattaforma logistica e buen retiro dei boss di Cosa nostra americana. La rivoluzione ha sbalzato fuori dal destino contestuale i cubani impoverendoli ma lasciandoli intatti dal punto di vista morale. Certo è una questione di punti di vista: ragionando di economia, di solito, non si dà peso ai fattori etici, ma se osserviamo cosa è accaduto ai paesi del centroamerica con la globalizzazione del narcotraffico si può solo immaginare (tutto dipenderà dall’esito del processo di devoluzione dell’ancien regime comunista) che Cuba, con il suo enorme capitale sociale potenziale, possa ambire a tracciare, in quell’area continentale, un modello innovativo di economia civile fondata su relazioni fiduciarie e risorse di comunità.
Riguardo alla seconda ipotesi non bisogna dimenticare che in principio la rivoluzione era l’espressione del malessere di una borghesia nazionale intellettuale, alleata con alcune fasce popolari e marginalizzata dal populismo di Fulgencio Batista. Il primo periodo post rivoluzionario fu caratterizzato da riforme radicali tese al miglioramento delle condizioni economiche attraverso una più equa redistribuzione della ricchezza. In Italia, per esempio, in questa fase, Castro conquistò simpatie nel mondo laico progressista che gli riconosce la capacità di mantenere equidistanza tra i due blocchi.
Leggete cosa scriveva, sul quotidiano palermitano “L’Ora”, un esponente del Partito Radicale nel 1961: «Siamo per Castro perché gli riconosciamo il merito di un rinnovamento autoctono, svincolato da rigidi sistemi di equilibrio… siano essi di matrice russa o americana. Molti in Italia si entusiasmarono per Kennedy, non fummo tra quelli e passammo per originali. Il presidente degli Stati uniti, come tutti gli uomini di governo americani, ricerca l’equilibrio economico come fine della propria azione politica… Lo stesso errore commettono i sovietici, per il comune substrato materialista delle due società, quando sbandierano come risultato le vittorie dei piani quinquennali».
Al materialismo di Usa ed Urss «si contrappone la civiltà cristiana… Cristo con il primo rifiuto della famiglia patriarcale delle sette, del popolo ebraico come prediletto, del vincolo assoggettatore uomo-uomo, pose le basi di una società ordinata per la continua espansione spirituale dell’uomo medesimo… consideriamo questa diretta emanazione della grande convergenza delle società cristiane (nel complesso di tutte le chiese e personali posizioni), per rifiutare ogni processo massificatore; una rigida appartenenza classista, il rapporto capacità patrimoniale – potere sociale».
Cuba diventa, allora, un esempio per dichiarare che le forze del vero progresso non erano quelle legate «al consumo di una certa quantità d’acciaio e di petrolio, né al razzo lunare; le forze della civiltà sono quelle dell’Amore, della libertà, intesa come interesse giornaliero, della esperienza continua dello spirito, e, quasi ovunque ci sembrano contrastate e mortificate da interessi chiusi ed egoistici. Comunque anche se rimarremo pochi e derisi preferiamo confidare in esse forze le nostre speranze».
Dunque, a dirla tutta, la scelta comunista, cominciata come difesa tattica dalla reazione americana alle riforme post rivoluzionarie, si trasformò in necessaria strategia di lungo periodo per evitare lo schiacciamento della logica dei due blocchi. Ricordare questa fase non è un modo per giustificare il totalitarismo, il culto del capo, gli eccessi di violenza, le condanne e gli errori significa solo che dentro ogni storia, se si ha il tempo e la voglia di zoomare sui dettagli, si riesce a cogliere qualche sfumatura in grado di mostrare come anche i più luminosi idealismi possono tramutare in ideologie autoritarie.
La terza e ultima domanda “impossibile” a cui rispondere riguarda la mancata leadership de el Che. È un tema affascinante perché ripropone, in un’altra epoca e ad altre latitudini, lo stesso dilemma che si ebbe nell’Unione Sovietica con la sfida tra Stalin e Trockij. Anche in questo caso il disaccordo tra Castro e Guevara derivava da due distinte visioni: tra la necessità di radicare e affermare i principi della rivoluzione nell’isola e la volontà di diffonderla, come una fiaccola olimpica, in giro per il mondo come speranza di liberazione. Insomma, dopo oltre trent’anni la diatriba tra i due riproponeva ancora lo staliniano “socialismo in un solo paese” in opposizione alla trotskista “rivoluzione permanente”. E se così stavano le cose, un maggiore protagonismo de el Che nell’azione di governo avrebbe condotto presto ad una rottura del fronte rivoluzionario.
Tutto ciò che ho scritto è frutto di mie elucubrazioni condite di se, ma e verbi al condizionale. Un sogno ad occhi aperti senza pretesa di interpretazioni esatte. È anche così che si è costruito il mito della rivoluzione cubana: uno stato di perenne eccitazione di fini intellettuali e di scaltri politici occidentali pronti a fantasticare e propagandare un occidente comunista libero dal dominio americano, quello stesso dominio capace di far godere loro libertà politiche, civili e sociali, benessere economico e diritto alla felicità.
Un ultima annotazione. Sulla nave che condusse Castro e Guevara a Cuba c’era un partigiano, Gino Donè Paro, che è stato a lungo indicato come l’unico combattente italiano nella rivoluzione cubana. In tanti hanno dimenticato, o non sanno, che Cuba era stata meta di molti meridionali in cerca d’oro (letteralmente). Alcuni provenivano da Padula in provincia di Salerno. Tra questi c’era Giuseppe Pinto, conosciuto come Josè, che si arruolò nelle schiere ribelli ottenendo il grado di tenente per atti di guerriglia (come l’assalto alla centrale elettrica de L’Avana).
Quando il Líder Máximo imboccò la strada del comunismo, Josè Pinto (che non aveva nessuna formazione politica antecedente) si ribellò e fu arrestato. Scampò all’esecuzione ma fu rimpatriato senza appello. Tornò a Padula con il carico della sua esperienza e in compagnia di una moglie cubana che non ha mai più rivisto la sua famiglia e il suo Paese.
Quale sarebbe stato il destino di José se Fidel non avesse scelto il blocco sovietico?