Era una donna pratica, Joan Didion, che aveva una valigia sempre pronta con le stesse cose, di cui ci ha lasciato un elenco: due gonne, due magliette di jersey, l’aspirina, una bottiglia di bourbon, il sapone marca Basil. E accanto alla valigia, una macchina da scrivere. Oggi, coi nostri laptop ultrasottili che stanno anche in una borsetta ci siamo dimenticati di quanto pesi una macchina da scrivere portatile. In casa, Didion usava una Royal KMM, una enorme macchina degli anni Quaranta. Forse per i suoi viaggi optava per qualcosa di più maneggevole, ma comunque pesantissimo da portarsi in viaggio.
Un paio di anni fa ho comprato da un signore molto simpatico una Lettera 32 della Olivetti. L’ho incontrato alla stazione di Bovisa e insieme abbiamo controllato che funzionasse sul tavolino di un bar. Nel viaggio verso casa, con in mano quella valigetta verde pesantissima, non ho potuto non pensare a Joan Didion che cammina a passo svelto per le strade di San Francisco con un peso del genere. Una donna così minuta eppure così resistente. Ma come faceva?
È morta ieri a 87 anni, nel suo appartamento di New York. Lo stesso in cui, alle 22:18 del 30 dicembre del 2003, il marito John Gregory Dunne ebbe un infarto mentre era seduto a tavola per cena. Solo poche ore prima, la coppia aveva visitato la figlia Quintana, in rianimazione per una setticemia all’ospedale di Beth Israel North. Quintana, dopo una serie di gravi problemi di salute, morirà nel 2005 a 39 anni. Questi fatti terribili sono raccontati nel libro forse più famoso di Didion, L’anno del pensiero magico, scritto in soli 88 giorni. In quelle circostanze si coglie tutto il suo carattere: Didion registra in maniera pedissequa ogni azione che precede e segue la morte di Dunne, ci informa del libro che stava leggendo poco prima di sedersi a tavola, ci dà conto di orari, conversazioni, pensieri. E con una frase essenziale racchiude l’intera esistenza del marito e quella che la aspetta da quel momento in poi: “John was talking, then he wasn’t”. Prima qualcosa c’era e poi improvvisamente ha smesso di esserci.
La precisione con cui Didion annota quello che le succede attorno ha origine nel suo passato di giornalista. Per sette anni a Vogue, nella cui redazione aveva conosciuto Dunne, Didion alla fine degli anni Sessanta torna nella nativa California e diventa una delle più appassionate reporter della controcultura americana. È una penna prolifica, quasi ansiosa: scrive centinaia di pezzi, che talvolta raccoglie in volumi ormai leggendari come Verso Betlemme (1968) e The White Album (1979), cinque romanzi, undici libri di non fiction, sei sceneggiature con il marito, tra cui quella di È nata una stella. Nella maturità, non si limita più a raccontare ciò che vede, ma tenta di trovare un punto di inizio, una spiegazione. Nei suoi libri il senso di vertigine – diagnosi che le fu fatta nel 1968 in seguito a una crisi depressiva – è onnipresente, dalle protagoniste nevrotiche e disorientate dei suoi romanzi all’occhio dei suoi reportage giornalistici.
Didion cercava di imbrigliare questo senso che continuamente le sfuggiva con quella pragmaticità che accompagnava la sua personalità e la sua scrittura, fortemente influenzata da Ernest Hemingway. Nel saggio “Why I Write” (Perché scrivo), la prima cosa che afferma è di aver rubato il titolo a George Orwell. La seconda è di averlo scelto perché le piace che le tre parole che lo compongono condividano un suono, “I, I, I”, io, io io. Un io che però non è mai ingombrante, ma che sta in silenzio in attesa che le cose si dicano da sé. Nelle foto, appare sempre elegante ma anche ferma, quasi intimidente. Nei video, come in quelli realizzati per il documentario Il centro non reggerà girato dal nipote Griffin Dunne, appare eterea e fortissima insieme.
Dietro il periodare cadenzato e i resoconti più precisi, Didion non riesce però a trattenere una scintilla, quel pensiero magico che la convince che è possibile riportare in vita John. Lei sa che si può fare, ne è convinta. E noi le crediamo. La perdita del controllo che tanto la faceva infuriare, nella scrittura così come nella politica e nella cultura americana, è comunque sempre presente in filigrana. Assume le sembianze di cattivi presagi, fatti ancora più inspiegabili del solito, animali selvatici.
Con la sua morte, forse Joan Didion riuscirà a trovare quel centro di tutto che tanto cercava.
Anche se probabilmente non avrebbe gradito questa immagine un po’ edulcorata, è bello immaginarla con John e con l’amata Quintana Roo, insieme e finalmente in pace. Con una valigia già pronta, la stessa di quarant’anni fa, e una macchina da scrivere pesantissima, che finalmente possono stare chiuse in un armadio.