Era rimasto a lavorare sulla sponda del fiume Hogswille, in solitudine, per tutta la primavera e parte dell’estate. Un lavoro meticoloso come l’esercizio di una preghiera, dal sorgere del sole alla sua scomparsa; aveva esaminato ogni riflesso, ogni aspetto, ogni volto dei fiori che adornavano il fiume selvaggi, capelli multicolore di varietà infinite, come se il sangue di mille principesse fosse germogliato dall’erba del Surrey. John Everet Millais è rimasto seduto quotidianamente, con il suo cavalletto e i colori, a osservare, per cinque mesi, la policromatica magica capigliatura della fioritura campestre inglese.
Era arrivato nel villaggio di Ewell nell’Aprile del 1851, e nei cinque mesi di permanenza ci era riuscito: restituire alla tela l’incantata atmosfera di campagna in cui, secondo il racconto di William Shakespeare nell’Amleto, aveva perso la vita Ofelia annegandosi. Per amore di Amleto. Perché lui era impazzito, e non la riconosceva più. Perché lei, senza lui, non poteva concepire il mondo, e capiva di sentirsi niente, briciola stupida di calore sputata nell’universo senza fine. Ofelia. Ofelia che volle morire.
Quando torna a Londra, dagli amici e compagni con cui ha fondato la ribelle Confraternita dei Preraffaelliti, Dante Gabriel Rossetti e William Hunt lo guardano ammirati e stupefatti: è la più bella, accurata, icastica e precisa raffigurazione floreale che si sia mai vista nella pittura moderna, un tripudio di colori e bravura tecnica in cui si condensano i più profondi significati simbolici. I fiori correvano attorno alla cornice come in una danza ma, al centro del grande dipinto, John aveva lasciato – un immenso spazio bianco. “Ma sei rimasto cinque mesi in mezzo alle pecore per dipingere solo questo?”, Dante Gabriel Rossetti, la carismatica guida del movimento, mescola ammirazione, amicizia e invidia nel chiedere a Millais quando abbia intenzione di completare quel dipinto che tutti attendevano. “Dov’è il dipinto, John, dov’è Ofelia?”; “Arriverà, Gabriel, arriverà presto, quel bianco è tutto per lei. A proposito, dov’è Elizabeth?”.
Elizabeth, Elizabeth Siddal, era a letto. Da quando, qualche anno prima, aveva fatalmente incontrato Rossetti, la vita di lei era radicalmente cambiata. Vendeva cappelli in un negozio al numero 3 di di Cranbourne Street. Rossetti se ne innamorò all’istante, perché i suoi ricci rossi gli dimostravano l’esistenza del sublime nell’universo. Divenne dapprima la sua modella, poi la sua allieva e amante. Poetessa e pittrice lei stessa, ammirata da tutto il movimento come l’incarnazione stessa della bellezza. Ma passano gli anni e Rossetti non la sposa, e la loro vita prosegue focosa e violenta tra amore, dolore, arte, laudano, crisi depressive e alcoliche. Come quella mattina in cui Millais le propone di posare per lui. Elizabeth giace in posizione fetale e sente la voce di Millais da sotto le lenzuola: “Elizabeth, verresti a posare? Ho bisogno di un’Ofelia”; lei gli chiede solo: “John, dov’è Gabriel?”; “Non lo so, Elizabeth. Allora, vieni a posare per me? Ti pagherò bene”.
Sì: ci sarebbe andata a posare per lui, anche se non gli rispose nulla tirandosi su dal letto pallida, allucinata, stupenda. E non si tirò indietro quando Millais le disse che avrebbe dovuto immergersi in una vasca da bagno, la cui acqua gelida era riscaldata da candele che poi si ruppero. Però neanche allora lei volle smettere, e strillando lo fece continuare a dipingere, per ore e ore, sinché John Everet Millais non terminò il ritratto di Elizabeth-Ofelia. La ragazza contrasse una bronchite terribile, che ne avrebbe minato la già cagionevole e provata salute psicofisica. Rimase a letto settimane. Rossetti non si decise a sposarla nemmeno in quei giorni. Lo fece quand’era troppo tardi, ed Elizabeth già troppo restituita a quella dimensione d’ombra e bellezza cui lei, creatura dai tratti ultraterreni, sembrava essere sempre appartenuta. Fu sua moglie solo pochi mesi, prima di morire.
Quando Elizabeth era già scomparsa, Rossetti era solito guardare il dipinto “Ofelia” di Millais, ormai uno dei grandi capolavori della pittura preraffaellita, con lo sguardo commosso e allucinato. Una volta chiese all’amico: “Il salice e le margherite sono citate da Shakespeare per indicare la morte innocente di Ofelia, e anche l’ortica, per il suo dolore, e le violette, per il suo amore non corrisposto. Mi è chiaro perché ci hai messo di testa tua il papavero: è la celebrazione della morte, e per questo c’è anche la fritillaria, che simboleggia il suicidio, giusto? Ma l’olmaria, non capisco l’olmaria, John, che c’entra, ma l'olmaria non è il simbolo della tranquillità? Qui non c’è niente di tranquillo, è tutto terribile”. “No, Gabriel, l’olmaria non simboleggia la tranquillità. Ti sbagli”. Rossetti l’aveva capito, ma non voleva confessarlo a se stesso: l’olmaria rappresentava un ragazza stupenda che sentiva di sentirsi niente, briciola stupida di calore sputata nell’universo senza fine. Elizabeth. Elizabeth che voleva morire.