Il Sabato nero del 1943, quel 16 ottobre in cui le SS invasero il ghetto di Roma
Furono milleventiquattro gli ebrei italiani rastrellati e deportati il 16 ottobre di sessantanove anni fa dal Ghetto di Roma al campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau; tra questi, oltre duecento deportati erano bambini, e nessuno di loro fece ritorno a casa. Quindici uomini e una donna: sedici in totale coloro che – tra gli ebrei romani, italiani a tutti gli effetti – si salvarono dallo sterminio nazifascista, l'ultimo di loro è morto nel 2008, all'unica donna – Settimia Spizzichino – il comune di Roma ha deciso di intitolare un ponte. Spizzichino raccontò l'intera esperienza della deportazione e del lager ne "Gli anni rubati".
Nel seguente passaggio racconta il rastrellamento del 16 ottobre 1943: "Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: i camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini… e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi, mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli. Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? ‘Campo di concentramento' allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager".
Durante il giorno che sarà ricordato come "Sabato nero", circa cento membri della SchutzStaffe (SS ) circondarono il ghetto di Roma – uno dei più antichi al mondo – prelevarono oltre mille esseri umani, li portarono nel collegio militare di Palazzo Salviati e poi alla Stazione Tiburtina. Da lì, il 18 ottobre 1943, partì un convoglio composto da diciotto carri bestiame e diretto ad Auschwits-Birkenau, dove approdò il 22 ottobre. All'epoca dei fatti, erano passati cinque anni dalla promulgazione, in Italia, delle leggi razziali, quattro dall'inizio della guerra; anni in cui la vita degli ebrei si era fatta via via più difficile: ghettizzati, resi invisibili sia nella vita che nella morte (tra i divieti promulgati – infatti – c'era anche quello che vietava la pubblicazione di necrologi dedicati a morti ebrei), gli israeliti subivano continue vessazioni e, a dispetto del mito che vorrebbe gli italiani dell'epoca uniti e solidali, subivano spesso le conseguenze di delazioni, spionaggi, vigliaccherie.
Oggi l'Italia si stringe compatta intorno al ricordo di quella tragedia; fa ammenda, chiede scusa, dedica ponti, strade, fiumi di parole al crimine di cui fu vittima – anche nel nostro paese – il popolo ebraico, ma il nostro cordoglio sarebbe tanto più sincero e utile se fosse capace di agire non solo nel ricordo degli errori commessi, ma anche nella promessa di non ripeterne di uguali. E invece? Con tutte le dovute differenze del caso, il popolo italiano non mostra di essere maturato – a distanza di sessantanove anni – in termini di solidarietà e umanità. Anche oggi, come allora, in un periodo di grande paura e disperazione, gli italiani non sanno vedere nell'altro-da-sé uno specchio del medesimo dolore che provano essi stessi, non sanno riconoscere il dramma che coinvolge e schiaccia coloro che vengono chiamati clandestini, zingari, stranieri. Come se poi l'idea di clandestinità fosse qualcosa di anche solo vagamente concepibile. Affinché un essere umano possa essere considerato un clandestino dovrebbe muoversi illegalmente all'interno di una proprietà privata, e quand'è che il pianeta è stato dichiarato proprietà privata? Chi lo possiede? Chi decide dove gli esseri umani sono liberi di vivere e dove no? Se ci arroghiamo il diritto di definire dove possono e dove non possono vivere le persone, non ci metteremo molto a rivendicare – come altri prima di noi – il diritto a decidere se possono o non possono vivere.
Il modo migliore di ricordare i morti è pensare ai vivi, lo disse il Presidente Sandro Pertini all'indomani di un'altra tragedia – il terremoto dell'80 in Irpinia. E dovremmo far tesoro di questo pensiero anche quando celebriamo le vittime di altre tragedie. Il modo migliore di ricordare gli ebrei italiani che persero la vita nei campi di sterminio nazisti è fare in modo che nulla di lontanamente simile accada a quelli che – oggi – sono i nuovi ebrei: quelli che vogliamo ghettizzare, deportare, far scomparire dalla vista; quelli che sono ancora vivi e nei confronti di cui è ancora possibile fare la cosa giusta.