Il rap neomelodico di Rocco Hunt
Quando scrivo di musica non seguo un ordine gerarchico. Non esiste, per me, un genere superiore ad un altro; esiste solo buona e cattiva musica. Questo principio vale anche per la canzone napoletana, brodo primordiale della musica leggera italiana. Tuttavia, non si può nascondere che la sua originalità risiede nella continua contaminazione di ritmi e melodie, agganciati all’espressività del dialetto. Il rap di Rocco Hunt è la più recente evoluzione del sincretismo musicale napoletano che aggrega generi diversi in una narrazione (di testi e d’immagini) neorealista.
Ho avuto la possibilità di partecipare ad un paio di concerti del rapper proprio nella sua città, Salerno. In entrambe le occasioni il pubblico era lo stesso delle feste di piazza in cui cantano i neomelodici: ragazzine con unghia smaltate e trucco eccessivo si accompagnavano a giovani con capelli di cera gommata e sopracciglia disegnate. Arrivavano a frotte sui loro scooter, assiepandosi sotto il palco. Tra loro, mescolati in un tutt’uno, c’erano altri giovani con un look decisamente più trasandato che sfoggiavano sul collo, o in altri punti del corpo visibili, enormi tatuaggi. Il minimo comune denominatore era la provenienza: la “zona orientale” (ovvero i quartieri periferici salernitani) e il centro storico alto (dove la movida non è mai arrivata). Qui, nelle mattine di sole, dalle finestre delle scatole di cemento o dai portoni dei bassi esplode la colonna sonora neomelodica sempre più intervallata da brani pop e qualche rap incazzato.
Rocco è uno di loro. Nato e cresciuto nella “zona orientale”, tra palazzine popolari e cooperative di edilizia residenziale pubblica, il suo rap si è nutrito di storie ordinarie piccolo borghesi, di precariato cronico e di nuove povertà. In questi rioni i giovani vivono in strada o riuniti in circoletti dove stringono rapporti di fratellanza e perdono ‘a capa pe’ ‘na guagliona, dove l’illegalità è la norma e non sempre genera un futuro criminale. Molti vanno via appena possono, altri studiano o lavorano, anche a nero, per restare senza dover sottostare alla legge del più forte. Sono luoghi in cui sacrificio, dolore, gioia ed esaltazione si confondono nella lotta per l’affermazione individuale. Nelle periferie si è costruita un’identità sociale, veicolata dalla musica, in cui la cultura locale (con il portato della sua mentalità collettiva) si intreccia con i fenomeni dirompenti della globalizzazione (individualismo, competizione, violenza).
È così che il sentimento neomelodico incontra la rabbia del rap: il primo esalta la quotidianità e i valori tradizionali, il secondo chiama alla battaglia per difendere con orgoglio la propria origine sociale. Rocco, ma non solo lui, è l’interprete del linguaggio musicale glocale, come dimostra la canzone L’ammore overo.
Il testo e le immagini (ma anche il mondo in cui è cantata) compongono l’immaginario di un rap volutamente neomelodico, per un pubblico abituato a melodie orecchiabili e storie d’amore adolescenziali che possono tramutare nel dolore infinito della perdita, dell’assenza, della separazione e divenire spinta all’introspezione psicologica: chi sono e cosa voglio dalla vita? Ma, all’improvviso, il sentimentalismo neomelodico lascia il passo all’urlo del disagio: «Solo chi viene dalla miseria nota i cambiamenti, quando la vita ti cambia davvero». Messo da parte l’amore perduto, esce fuori il rapper che combatte contro l’immobilità del contesto e lancia la sfida del successo: «Mamma urla sempre: “La stessa capa ‘e merda”… Questa vita mi ha bastonato, la gente mi ha preso in giro… Il successo è stato il prezzo per farmi accettare». Eppure, giunto all’apice del suo social beef, inserisce una frase che lo riconduce tra i suoi pari, quelli cresciuti “a pane e musica napoletana”: «E quante cose separano Nord e Sud, siamo più carnali e ‘O zappatore ‘a mamma nun s’à scorda».
La citazione di Mario Merola, voluta o non, è un preciso richiamo all’ultimo interprete musicale che aveva reso la sceneggiata un ponte culturale attraverso il quale borghesi e proletari, settentrionali e meridionali si univano in un solo pubblico. Il video, invece, con la modella diciottenne bella e sensuale (ripresa persino in perizoma) è un tributo a chi si ciba su Youtube di clip neomelodiche: la scena di Rocco insieme alla ragazza sul motorino è simile a decine di altre già viste che ricordano i momenti felici di una storia ormai finita. Dal mio punto di vista la collaborazione con Eros Ramazzotti nasce, al di là degli evidenti risvolti commerciali, all’interno di una narrazione polifonica della periferia. Non dimentichiamo che il cantante romano trionfò a Sanremo nel 1984, con Terra promessa, piazzandosi primo nella sezione Voci nuove, proprio come Rocco, e due anni dopo vinse il Festival con Adesso tu, il cui incipit era un manifesto identitario: «Nato ai bordi di periferia, dove i tram non vanno avanti più; dove l’aria è popolare, è più facile sognare che guardare in faccia alla realtà».
Potrebbe essere un conveniente (per il mercato discografico) ritorno alle origini. In fondo se fosse nato negli anni Novanta anche Ramazzotti – forse – avrebbe scelto un rap melodico per raccontare l’amore tra due adolescenti che gli snob chiamano coatti.