Il processo a Georges Jacques Danton
Questo articolo è a cura dell’Avvocato Giuseppe Palma del Foro di Brindisi. Appassionato di storia e di diritto, ha sinora pubblicato numerose opere di saggistica a carattere storico – giuridico.
IL PROCESSO A GEORGES JACQUES DANTON: FATTI STORICI, ASPETTI PROCESSUALI E RIFLESSIONI GIURIDICHE, COMPARAZIONI COI GIORNI NOSTRI.
Georges Jacques Danton, che era stato l’uomo più rappresentativo della Rivoluzione francese dopo la morte del Conte di Mirabeau, già dal mese di luglio del 1793 fu estromesso dal Comitato di Salute Pubblica (nei fatti il governo della Francia) e al suo posto la Convenzione Nazionale aveva eletto Maximilien Robespierre. Entrambi avvocati, giacobini e deputati della minoritaria Montagna (la sinistra della Convenzione Nazionale), inizialmente alleati e in forte comunione d’intenti, dopo le condanne a morte del re e della regina avevano gradualmente iniziato a percorrere strade politicamente diverse e ad avere idee differenti sul corso rivoluzionario. Danton, insieme a Camille Desmoulins, cercava di dare alla politica francese (e quindi alla Rivoluzione) un assestamento definitivo al fine di giungere ad una condivisa pacificazione nazionale (anche attraverso le pagine del giornale Le Vieux Cordelier); Robespierre, insieme a Saint-Just, era invece un convinto sostenitore della linea dell’intransigenza ed instaurò – attraverso una sordida accondiscendenza della paurosa ed asservita Convenzione – un vero e proprio regime di Terrore durante il quale, attraverso un uso politico del Tribunale rivoluzionario, chiunque poteva finire sotto la lama della ghigliottina per il sol fatto di essere sospettato quale controrivoluzionario. L’accoppiata Robespierre/Saint-Just infatti, attraverso il solito sistema del Terrore, fecero approvare dalla Convenzione Nazionale la famigerata Legge dei Sospetti (17 settembre 1793), un aberrante provvedimento legislativo che, in barba ad ogni garanzia costituzionale, consentiva al governo di far arrestare e processare chiunque fosse anche solo sospettato di essere contrario alla politica governativa, invertendo finanche il principio dell’onere della prova a garanzia degli imputati, quindi i poveri sventurati che finivano davanti al Tribunale rivoluzionario, oltre a dover subire un processo sommario (un giudizio senza le dovute garanzie processuali atte a consentire agli accusati di dimostrare la propria innocenza), dovevano addirittura dimostrare essi stessi la loro innocenza, con la conseguenza che non era più l’accusa a dover dimostrare il fondamento di colpevolezza. Tuttavia, almeno fino all’aprile del 1794, la Legge prevedeva la possibilità per gli imputati di chiedere l’ammissione di testimoni a propria discolpa.
E ben peggiore della Legge dei Sospetti fu la Legge del 22 pratile dell’anno II (approvata dalla Convenzione Nazionale – su impulso del Comitato di Salute Pubblica – il 10 giugno 1794), un provvedimento legislativo terroristico frutto della peggiore concezione del diritto e del rapporto tra Stato e cittadini!
Nel frattempo erano morti, oltre al re e alla regina (ghigliottinati rispettivamente il 21 gennaio ed il 16 ottobre 1793), anche rivoluzionari del calibro di Marat (ucciso il 13 luglio 1793 nel proprio tinello da bagno dalla girondina Charlotte Corday), di Mirabeau (uomo simbolo dell’Assemblea Costituente stroncato da un male incurabile il 2 aprile 1791), di Brissot (capo del “partito” girondino ghigliottinato il 31 ottobre 1793), di Bailly (esponente di rilievo del “partito” costituzionale ghigliottinato il 12 novembre 1793) e di Philippe-Égalité (duca d’Orléans e gran maestro della loggia massonica de Les Neuf Sœurs – cugino del re e più che probabile successore di Luigi XVI sul trono di Francia nell’ottica della monarchia costituzionale cara alla massoneria -, ghigliottinato il 6 novembre 1793).
Oltre a questi, erano stati messi “fuori gioco” anche i generali La Fayette e Dumouriez, entrambi passati al nemico e quindi ritenuti traditori.
Con Danton ormai fuori dal Comitato di Salute Pubblica (10 luglio 1793), Robespierre – che ne aveva preso il posto il 27 luglio di quello stesso anno – era ormai ad un passo dalla dittatura con l’intento di emulare la figura di Cesare a Roma. Ma perché ciò avvenisse bisognava, nell’ottica dell’Incorruttibile, eliminare un uomo popolare ed influente come Danton. Robespierre, inizialmente contrario alla decisione di trascinare in giudizio un personaggio amato come Danton, successivamente acconsentì – su impulso dello spietato Saint-Just (denominato l’Arcangelo della morte) – all’arresto del suo ex alleato e dei suoi seguaci, i così detti “Indulgenti” (così chiamati per via della politica di voler addivenire alla pacificazione nazionale), i quali avrebbero potuto – a ragione – ostacolare le sue mire autoritarie.
Era la notte tra il 30 ed il 31 marzo 1794. Gli imputati (Danton, Desmoulins, etc…), inizialmente condotti presso la prigione del Lussemburgo, dopo meno di due giorni furono tradotti alla Conciergerie, il carcere dove venivano stipati tutti i “condannati in attesa di giudizio”.
L’atto di accusa nei confronti di Danton e degli “Indulgenti” è rappresentato dal cosiddetto Rapporto Saint-Just, un documento stilato dal ventiseienne giacobino dopo le dovute correzioni ed osservazioni apportatevi da Robespierre. Le principali accuse rivolte a Danton sono:
- – Corruzione nell’ambito dell’affare della Compagnie delle Indie (accusa non rivolta direttamente nei confronti di Danton);
- – Aver considerato l’opinione pubblica una “puttana”, la posterità una stupidaggine e aver dichiarato che la sola “virtù” da egli conosciuta era quella che esercitava tutte le notti con sua moglie. Essendo quindi un uomo estraneo ad ogni idea di morale, non poteva essere – secondo il Governo di Robespierre – un difensore della libertà;
- – Essersi fatto “sedurre” dal conte di Mirabeau, vale a dire da colui che, in un primo momento, aveva rappresentato l’anima della Rivoluzione e che successivamente, invece, era stato ritenuto un traditore;
- – Essersi fatto corrompere dalla corte reale e dai monarchici;
- – Aver lasciato Parigi ed essersi ritirato prima ad Arcis-sur-Aube e successivamente in Inghilterra dopo l’eccidio del Campo di Marte del 17 luglio 1791, abbandonando in tal modo la cosa pubblica. Aver goduto, sempre dopo i fatti del Campo di Marte, di una certa “immunità” dalla reazione monarchica;
- – Aver avuto l’intenzione di andare a dormire nella fatidica notte tra il 9 e il 10 agosto 1792 e di aver spronato con energia i soldati marsigliesi solo quando l’insurrezione era già decisa e ormai inevitabile;
- – Aver amministrato con superficialità e poca accuratezza il denaro pubblico datogli in dotazione quando era ministro della Giustizia;
- – Aver espresso l’opinione di trovare conveniente evitare la condanna a morte del re;
- – Aver protetto il generale Dumouriez nascondendo alla Convenzione Nazionale i suoi intenti controrivoluzionari;
- – Aver cospirato con Dumouriez per consentirgli di marciare su Parigi con lo scopo di porre fine alla Rivoluzione (e alla neonata repubblica) e restaurare la monarchia seppur sotto forma costituzionale;
- – Aver dichiarato apertamente di volere un’amnistia per tutti i colpevoli, quindi di essere monarchico e di volere la controrivoluzione e la restaurazione.
Essendo Danton (ed alcuni altri imputati) deputato della Convenzione Nazionale, era necessario che il Rapporto Saint-Just (e di conseguenza l’arresto derivatone dall’esecuzione dello stesso) fosse approvato dalla Convenzione medesima. Dopo un iniziale tumulto scoppiato in aula durante il quale alcuni deputati chiesero che Danton si presentasse alla tribuna per discolparsi (“Danton alla tribuna! Danton alla tribuna!”), prese la parola Robespierre: “Chiunque trema è colpevole. L’innocenza non teme mai la pubblica sorveglianza. Basta con gli idoli! Basta coi privilegi!”. Parecchi deputati, per evitare che la propria presa di posizione a difesa di Danton procurasse problemi anche per loro, decisero di non esporsi personalmente e, di conseguenza, seppur parecchio contrariati e sovrastati dalla Paura, votarono in favore del Rapporto Saint-Just… Robespierre, terrorizzando l’Assemblea, aveva magistralmente messo a segno il primo punto a suo favore.
In merito alle prove contro gli imputati, lo storico francese Jules Michelet scrive: “Fouquier (Antoine Quentin Fouquier de Tinville, detto Fouquier-Tinville, pubblico accusatore del Tribunale rivoluzionario – n.d.a.) non aveva né documenti né testimoni (salvo uno contro Fabre). Il comitato non gli dava alcun mezzo, e poi gli diceva: “Procedi!”. Che cosa poteva dunque presentare quel povero Fouquier? La sua convinzione personale? Ne dubito….”. Un girondino, tale Riouffe (più tardi grande reazionario e sottoprefetto dell’Impero), un giorno disse: “Quel terribile Danton fu veramente fatto sparire con un giuoco di bussolotti da Robespierre”.
Danton compare davanti al Tribunale nel primo pomeriggio del 2 aprile. Insieme a lui Fabre d’Eglantine, Bazire, Chabot, Delaunay, Desmoulins, Philippeaux, Lacroix, Hérault de Séchelles etc… A sfregio sono condotti alla sbarra anche dei ladri comuni. Enorme l’affluenza in aula da parte del popolo accorso a vedere con i propri occhi quanto di più incredibile ci si poteva aspettare. Non essendo sufficiente l’aula, parecchi rimangono fuori o sotto il balcone per poter udire la voce del tuono!
Il presidente del Tribunale, Martial Joseph Armand Herman, inizia con l’appello degli imputati: Desmoulins: “Ho trentatré anni, l’età del sanculotto Gesù quando è morto”. Risate da parte del pubblico; Danton: “Ho trentaquattro anni. Sono nato ad Arcis-sur-Aube, avvocato all’ex Consiglio, rivoluzionario e rappresentante del popolo. La mia dimora? Presto il nulla, poi il Pantheon della Storia. Poco mi importa. Il popolo rispetterà la mia testa, sì, la mia testa ghigliottinata…”. Il pubblico nuovamente scoppia a ridere.
Il Cancelliere in carica – Paris-Fabricius -, essendo un grande amico di Danton, è stato sostituito all’ultimo momento da Fouquier che ha nominato un tale di nome Ducray. Questo inizia la lettura dell’atto di accusa, mentre Danton, nell’udire le assurdità preparate da Saint-Just, sbuffa in continuazione. Alla fine non ne può più, si alza di scatto e si rivolge al presidente: “Chiedo il diritto di scrivere alla Convenzione perché venga nominata una commissione. Essa ascolterà la denuncia mia e di Desmoulins contro la dittatura dei Comitati di salute pubblica e di sicurezza…”. La folla applaude il primo ruggito del leone. Herman sospende la seduta mentre Danton tenta di continuare a parlare aggrappandosi alla sbarra, ma le sue parole sono coperte dal tumulto scoppiato in aula. Gli imputati sono portati via e il Tribunale si aggiorna al giorno successivo.
Per tutta la notte Danton prepara la sua difesa. Il giorno successivo, il 3 aprile, dietro la sbarra compare un imputato in più: è il generale Westermann, colui che ha condotto l’assalto alle Tuileries il 10 agosto. Il popolo ne è sbalordito!
Danton chiede subito la parola: “Visto che ci viene concessa la parola, e ampiamente, sono sicuro di smentire i miei accusatori e se il popolo francese è quello che deve essere, sarò costretto a chiedere per loro la grazia”. Il pubblico applaude; anche Desmoulins chiede la parola. Herman cerca di rimettere ordine: “Vi richiamo al dovere”. “Ed io ti richiamo al pudore!” gli risponde Danton, continuando: “Abbiamo il diritto di parlare qui! Sono io che ho creato questo tribunale, so meglio di chiunque altro come debba funzionare!”. Baccano e frastuono in aula: la folla applaude ad ogni parola di Danton; Herman si trova in grandissime difficoltà, non sa più che fare per tenere a bada sia il popolo che il loro tribuno, quindi con energia agita per tutta la giornata il campanello per il richiamo all’ordine: “Non senti il mio campanello?”. “Un uomo che difende la propria vita se ne infischia di un campanello e urla!” gli risponde Danton. Subito dopo scorge in aula Cambon, l’esperto finanziario della Convenzione che è in aula per testimoniare sull’affare della Compagnia delle Indie: “E tu, Cambon, ci credi dei cospiratori?”. Cambon non trattiene il sorriso. Danton se ne accorge e ne approfitta: “Vedete, sorride. Ride persino. Non lo crede. Cancelliere, scrivete che ha riso!”. Tutti iniziano a ridere, compresi giudici, giurati e guardie. La folla applaude, conosce bene Danton, sa che venderà cara la pelle.
Danton dirige, attacca, comanda lui stesso il processo e lo conduce dove egli preferisce. Liquidata la questione corruttiva circa l’affare della Compagnia delle Indie – nella quale il tribuno non c’entra assolutamente niente -, si passa alle accuse contro il grande rivoluzionario.
Il Cancelliere inizia la lettura del rapporto di Saint-Just. La prima accusa è quella di tradimento e complicità con il generale Dumouriez. Herman: “Danton, la Convenzione nazionale vi accusa di complicità con Dumouriez, di non averlo fatto conoscere così com’era, di aver condiviso i suoi progetti liberticidi, come quello di far marciare un esercito su Parigi per distruggere il governo repubblicano e per ricostruire la monarchia”. Danton, puntando il dito indice contro la corte, inizia la sua difesa: “La mia voce, che si è fatta udire tante volte per la causa del popolo, per sostenere e difendere i suoi interessi, non farà fatica a respingere questa calunnia… Quei vigliacchi che mi calunniano oseranno parlare guardandomi in faccia? Si mostrino e li ricoprirò dell’ignominia e dell’obbrobrio che li distinguono! L’ho detto e lo ripeto: la mia dimora sarà presto il nulla e il mio nome sarà al Pantheon!… Ecco la mia testa: risponde di tutto! La mia vita mi pesa. Non vedo l’ora di esserne liberato”. Herman lo rimprovera: “Danton, l’audacia è propria del delitto e la calma dell’innocenza; la difesa è senza dubbio un diritto legittimo, ma che sia una difesa che sappia restare nei limiti della decenza e della moderazione, che sappia rispettare tutti, anche i suoi accusatori…”, ma Danton se ne infischia: “… Ci si può attendere una fredda difesa da un rivoluzionario come me? Io venduto? Un uomo della mia tempra è impagabile. Le prove? Colui che mi accusa presso la Convenzione produca la prova, la mezza prova, gli indizi della mia venalità! (…) Mi si accusa di aver strisciato ai piedi di vili despoti, di aver cospirato con Mirabeau e Dumouriez, di aver sostenuto i monarchici e la monarchia… Ma tutti sanno che ho combattuto Mirabeau, che ho lottato contro La Fayette. Ricordatevi del mio manifesto esortante all’insurrezione nelle giornate del 5 e 6 ottobre!… Fateli comparire (si riferisce ai suoi accusatori – n.d.a.) in mia presenza e li ricaccerò nel nulla dal quale non sarebbero mai dovuti uscire. Vili impositori, comparite e vi strapperò la maschera che vi sottrae alla vendetta pubblica”.
Herman, invece di contestare a Danton fatti ben precisi, si perde nel continuare a rimproverarlo: “Danton, non è certo con le invettive indecenti sul conto dei vostri accusatori che riuscirete a convincere della vostra innocenza la giuria. Parlatele in un linguaggio che essa possa udire”. Danton gli risponde consapevole di non essere un imputato come gli altri: “Un accusato come me, che conosce le parole e le cose, risponde davanti alla giuria ma non le parla. Mai ambizione o cupidigia ebbero potere su di me… Tutto dedito alla mia patria, le ho fatto il generoso sacrificio di tutta la mia esistenza. E’ in questo stato d’animo che ho combattuto tutti i cospiratori che volevano introdursi nei posti più importanti per meglio e più facilmente uccidere la libertà. Ho cose essenziali da rivelare; chiedo di essere ascoltato con calma, lo esige il bene della patria. E’ molto strana la cecità della Convenzione nazionale sul mio conto fino a questo momento, ed è veramente miracolosa la sua improvvisa illuminazione!”. Herman cerca quindi di riportare il discorso sul concreto: “L’ironia alla quale siete ricorso non elimina l’accusa fattavi di esservi ricoperto in pubblico della maschera del patriottismo per ingannare i vostri colleghi e per sostenere segretamente la monarchia. Niente è più comune dello scherzo facile e del gioco di parole nella bocca degli imputati che si sentono stretti e schiacciati dalle proprie azioni e non possono annullarle!” Danton gli risponde con ulteriore ironia: “Effettivamente mi ricordo di aver provocato la restaurazione della monarchia, la ricostituzione di ogni potere monarchico, di aver protetto la fuga del tiranno opponendomi con tutte le mie forze al suo viaggio a Saint-Cloud facendo erigere picche e baionette al suo passaggio, frenando in qualche modo i suoi focosi destrieri. Se questo significa dichiararsi sostenitori della monarchia, mostrarsi suo amico, se in questo comportamento si può ravvisare l’uomo che favorisce la tirannia, in questo caso confesso di essere colpevole di tale delitto”.
Si passa quindi all’eccidio del Campo di Marte del 17 luglio 1791. Per questo capo di imputazione Danton è accusato di essersi dileguato subito dopo rifugiandosi prima ad Arcis-sur-Aube e successivamente in Inghilterra. L’uomo del 10 agosto è pronto a difendersi: “E’ stato spiccato contro di me un mandato d’arresto per i fatti del Campo di Marte. Mi offro di provare che la petizione alla quale ho concorso non conteneva che intenzioni pure, che avrei dovuto essere assassinato insieme con altri autori della petizione, così com’è accaduto ad uno di essi, e che furono inviati da me ad Arcis-sur-Aube, dove mi ero rifugiato, dei sicari per immolarmi al furore dei controrivoluzionari. Furono offerti a Legendre 50.000 scudi per uccidermi… Ero a casa di mio suocero; lo investirono, maltrattarono mio cognato al posto mio…”. Herman: “Il 17 luglio 1789 non siete forse emigrato, non siete forse andato in Inghilterra?”. Risponde Danton: “I miei cognati andavano in quel paese per un affare commerciale ed io approfittai dell’occasione; si può farmene una colpa?…”. Attenzione, qui Herman – forse per un lapsus o forse di proposito – commette un errore: Danton non è andato in Inghilterra il 17 luglio 1789, bensì dopo il 17 luglio del 1791, vale a dire successivamente ai fatti del Campo di Marte, e le sue dichiarazioni sul punto sono del tutto veritiere . Il tribuno, preso dalla foga di doversi difendere, non coglie l’errore del presidente e non ne approfitta.
Georges continua la sua difesa ed è un fiume in piena. Sia Fouquier che Herman lo lasciano parlare perché sperano che, difendendosi in maniera confusa e non su fatti precisi, la giuria non ritenga sufficiente le sue argomentazioni. Si arriva al 1792: Fouquier-Tinville lo accusa di non aver partecipato, il 10 agosto, alla presa delle Tuileries. Danton si trasforma da leone in drago: “Avevo preparato io la giornata del 10 agosto ed andai a passare tre giorni ad Arcis per salutare mia madre, poiché sono un figlio premuroso, e per curare i miei interessi. Ho dei testimoni. Sono stato visto di frequente. Non sono nemmeno andato a dormire… Dopo aver preparato tutte le operazioni e il momento dell’attacco mi sono messo a letto come un soldato, con l’ordine di avvertirmi. Uscii all’una e mi recai alla Comune diventata rivoluzionaria. Pronunciai la sentenza di morte contro Mandat (comandante della Guardia Nazionale – n.d.a.), che aveva l’ordine di sparare sulla folla…”.
Danton ha perfettamente ragione. Incriminarlo per non aver partecipato alla giornata del 10 agosto è davvero assurdo. E’ lui ad istituire la Comune Insurrezionale di Parigi la sera del 9 agosto e a revocare l’incarico al marchese de Mandat; è lui che, durante la notte tra il 9 e il 10 agosto, sprona il battaglione proveniente da Marsiglia ad unirsi al popolo per sferrare l’attacco alle Tuileries; è lui a giocare un ruolo decisivo. Per quanto concerne la sua diretta e personale partecipazione all’assalto del Palazzo reale, è abbastanza singolare che proprio Robespierre contesti un’accusa del genere a Danton. Dov’era finito Robespierre quella notte? Timoroso che i tempi non fossero ancora maturi per la Repubblica, l’Incorruttibile si era ben nascosto in attesa dell’evolversi degli eventi!
Danton deve ora rispondere dell’accusa di essersi appropriato di una buona parte di denaro pubblico nel periodo in cui è stato ministro della Giustizia. Il leone è in gabbia, ma si difende come solo lui sa fare: “Mi sono stati consegnati 50 milioni. Lo ammetto; mi offro di renderne esattamente conto: mi sono serviti per dare impulso alla Rivoluzione. Per le spese segrete non sono usciti dalle mie casse che 200.000 franchi: questi fondi sono stati il mezzo per sollevare i dipartimenti…, non ho fatto nulla che non fosse lecito”. In realtà, per quanto riguarda questa accusa, Danton cade in un campo pericoloso; non ha seguito con scrupolo la contabilità in quanto essa era stata affidata a Fabre (uno degli imputati), suo segretario al ministero. Del resto, come ormai è risaputo, Danton si è arricchito moltissimo ed è il caso di affermare, con onestà intellettuale, che da questo punto di vista non si può di certo dare torto a coloro che da sempre lo accusano di corruzione e di aver fatto “favori” in cambio di denaro. C’è tuttavia da evidenziare, però, che l’accusa di corruzione non è dimostrata da alcun elemento che possa degnamente ergersi a rango di prova in un processo penale: tutti lo sanno, ma la certezza non la possono fornire né Robespierre e Saint-Just né, tanto meno, Fouquier-Tinville ed Herman.
E’ praticamente certo che Danton, per le ragioni e i motivi più disparati, ha accumulato durante la Rivoluzione parecchia ricchezza: è stato pagato dai monarchici, dalla corte reale, da Filippo d’Orléans etc…, ma è come Mirabeau: “Si poteva pagarlo, ma non comperarlo”.
Personalmente ritengo, e non è una colpa pensarlo, che non necessariamente un uomo onesto sia anche un buon politico: si può essere corrotti ma al tempo stesso anche ottimi politici ed eccellenti uomini di Stato. Onestà e capacità non costituiscono, a mio parere, un binomio inscindibile.
Georges è scaltro, sa che il popolo è disposto a perdonargli la ricchezza, quindi concentra la difesa sui suoi meriti personali e sulla propria vita offerta per il bene della Patria.
L’accusa, per l’intera giornata, incalza incessantemente Danton su tante altre questioni, come ad esempio quella di aver cospirato al fine di consentire a Dumouriez di marciare su Parigi e restaurare la monarchia. Danton si difende, attacca e respinge con energia tutte le accuse, ma parla da diverse ore ormai, la sua voce è roca e chiede continuamente che vengano ammessi i testimoni da lui richiesti. Si ferma per qualche secondo, guarda la corte e si rivolge alla folla: “Mi si rifiutano i testimoni. Allora io non mi difendo più…”. Il leone è stanco, cerca di prendere fiato.
Nel frattempo, mentre Danton parla, Fouquier-Tinville (pubblico accusatore, quindi organo inquirente) ed Herman (presidente del Tribunale, quindi organo giudicante) si scambiano per iscritto alcuni bigliettini con i quali si consigliano, l’un l’altro, quale strategia è meglio utilizzare e quali domande fare a Danton per metterlo in difficoltà o per farlo zittire (“Fra una mezzora farò sospendere la difesa di Danton; bisognerà chiedere qualche particolare” scrive Herman. “Quando tu avrai finito con le tue domande ne ho una io da fare a Danton riguardo al Belgio” gli risponde Fouquier. “Sulla questione del Belgio… non dovremmo soffermarci troppo sulla cosa” ribatte Herman, e così via).
Herman si rende conto che Danton è stanco e ne approfitta per chiedergli di smettere. Il tribuno si ferma, ma a patto che gli si consenta di parlare il giorno dopo. Il presidente glielo promette. Nel momento in cui gli imputati vengono accompagnati fuori dall’aula, Danton esclama: “Entro tre mesi il popolo farà a pezzi i miei nemici”.
Il giorno 4 si passa all’interrogatorio anche degli altri imputati. Fouquier-Tinville è pallido, sa che se Danton e tutti gli altri dovessero cavarsela, sarà lui a doverne pagare le conseguenze al cospetto dell’ira di Robespierre. Sono rivolte le accuse nei confronti di Hérault de Séchelles, di Desmoulins, di Lacroix e degli altri dantoniani. Tutti si difendono con ardore e puntualità, nessuno si lascia intimidire e ogni accusa viene respinta. Danton continua a richiedere i testimoni, continua con il pretendere che coloro che lo accusano si presentino al suo cospetto. La folla applaude Danton, è con lui!
Herman e Fouquier-Tinville stanno per perdere di mano l’intera situazione; è Danton il re del processo! Anche Lacroix reclama vigorosamente i suoi testimoni. Fouquier, dopo essersi opposto per tutto il processo ad ammettere i testimoni a discolpa degli imputati, si alza in piedi ed esclama: “L’audizione dei testimoni non è di mia competenza. D’altronde io non mi sono mai opposto alla loro citazione”.
Questa frase di Fouquier sottintende un fatto ben preciso: il pubblico accusatore, la sera del 1° aprile, si è recato al Comitato di Salute Pubblica per ricevere istruzioni in merito alla citazione di eventuali testimoni richiesti dagli imputati a propria difesa. Robespierre, Saint-Just e Billaud gli hanno ordinato tassativamente di opporsi all’ammissione dei testi eventualmente reclamati da Danton e compagni.
Intanto la discussione in aula si inasprisce, il popolo presente è dalla parte degli imputati.
Fouquier-Tinville ed Herman sono ormai alle strette e rischiano di non provare nulla né contro Danton né contro gli altri Indulgenti. Il pubblico accusatore prende quindi carta e penna e inizia a scrivere a Saint-Just una lettera che viene preventivamente corretta da Herman: “Una terribile tempesta è scoppiata sin dall’inizio della seduta: gli accusati, come forsennati, reclamano l’audizione dei testimoni a discarico: i deputati Simon, Courtois, Laignelot, Fréron, Panis, Lindet, Calon, Merlin (di Douai), Gossuin, Legendre, Goupilleau, Lecointre (di Versailles), Brival e Merlin (di Thionville). Si appellano al popolo per il rifiuto che sostengono sia stato loro opposto. Nonostante la fermezza del presidente e di tutto il tribunale, i loro molteplici reclami turbano la seduta, ed essi annunciano ad alta voce che non taceranno fino a che non saranno ascoltati i loro testimoni. Vi invitiamo a decidere in via definitiva la nostra condotta nei confronti di questo reclamo, poiché l’ordinamento giudiziario non ci fornisce alcun mezzo per motivarne il rifiuto”.
Mentre si attende la risposta da parte del Comitato di Salute Pubblica, l’udienza continua tra le accuse di Fouquier ed Herman e le arringhe di Danton e degli altri Indulgenti, più volte interrotti dal campanello del presidente e dagli applausi del pubblico.
Nel frattempo la lettera di Fouquier è giunta al Comitato di Salute Pubblica. Saint-Just è furioso. Robespierre teme che, concedendo i testimoni agli imputati, questi possano cavarsela e, a quel punto, con Danton assolto, crollerebbe l’intero disegno dittatoriale. Quando Robespierre ha deciso di mandare Danton davanti al Tribunale, non ha neppure preso in considerazione l’ipotesi di un’assoluzione. Se il processo a Danton dovesse concludersi con una sentenza diversa dalla pena di morte immediata, di conseguenza sul banco degli imputati finiranno Robespierre, Saint-Just e tutti i Giacobini loro seguaci. Per l’avvocato di Arràs c’è una sola strada da seguire: costringere Danton al silenzio e mandarlo immediatamente alla ghigliottina. E’ nuovamente Saint-Just ad occuparsi della questione. Si reca davanti alla Convenzione Nazionale e, mentendo spudoratamente, afferma che l’aperta rivolta degli imputati e la loro ribellione alla legge hanno costretto Fouquier a sospendere i dibattiti in attesa che la Convenzione prenda le sue misure. L’Assemblea, sovrastata dalla Paura, vota il decreto proposto da Saint-Just che consente al Tribunale di escludere dal dibattimento gli imputati che resisteranno o insulteranno la giustizia.
Il decreto giunge immediatamente a Fouquier-Tinville che ne dà lettura in aula. Danton è rosso in viso, le vene della gola gli stanno per scoppiare, si alza in piedi ed esclama: “Infame Robespierre! Il patibolo ti aspetta! Mi seguirai, Robespierre!”. Poi si rivolge al Tribunale: “Non ho insultato il tribunale, chiamo il popolo a testimone. Questo decreto è una macchinazione infernale per rovinarci. Ingiungo ai giudici, ai giurati, al pubblico di dichiarare che ci siamo ribellati! Ci vogliono condannare senza ascoltarci! Mi rifiuto, rimarrò Danton fino alla morte, e domani dormirò nella gloria”. Il popolo ha ritrovato il suo grande tribuno, in aula la folla continua ad acclamarlo. Lo stesso Fouquier-Tinville conviene che gli imputati non sono affatto in rivolta e che la Convenzione è stata ingannata. Herman, d’accordo con Fouquier, capisce il pericolo e scioglie la seduta.
L’udienza del 5 inizia alle otto e mezza invece che alle dieci come di solito avviene. Gli imputati continuano a reclamare che vengano ammessi i testimoni a propria discolpa, ma Fouquier chiede al Cancelliere di rileggere il decreto della Convenzione; poi si alza e si rivolge ai giurati: “I giurati sono stati illuminati a sufficienza?”. La risposta è affermativa. “In questo caso il dibattito è chiuso” aggiunge il presidente Herman. La folla dimostra il proprio stupore, scoppia un tumulto! Danton balza in piedi e urla a gran voce: “Chiuso? Ma non è nemmeno incominciato! Non avete letto le prove né udito i testimoni!”. Tutti gli altri imputati iniziano ad insultare i giudici: “Briganti! Assassini! Ci giudicate senza averci ascoltati! Non siamo giudicati, siamo uccisi!”. Danton continua: “…ma voi giudici, voi giurati, avete tutti ammesso, in presenza del popolo consenziente, che il fatto che è servito come pretesto per strappare di sorpresa questo decreto alla Convenzione, era un falso ed una calunnia! Avete reso omaggio alla nostra innocenza e invece oggi…”, ma il presidente lo interrompe: “Non ha nessuna importanza, il decreto c’è, e deve essere osservato”. Desmoulins chiede la parola, ma Herman gliela rifiuta e Camille gli tira addosso un foglietto sul quale aveva annotato alcuni punti della sua difesa. Fouquier-Tinville afferra il decreto della Convenzione e chiede che gli imputati vengano espulsi dall’aula per aver insultato la giustizia. Herman approva; scoppia un tumulto. Le guardie cercano di condurre via gli imputati che protestano! Danton urla: “Io cospiratore?! Il mio nome è unito a tutte le istituzioni rivoluzionarie: leva, armata rivoluzionaria, tribunale, comitato di salute pubblica: sono stato io a darmi la morte, e sono un moderato… Conduceteci al patibolo! Sapevo che la nostra morte era già decisa; non contenderò più la mia vita agli infami che mi assassinano, me l’hanno resa troppo amara. Avrei solo desiderato che essa fosse più utile alla mia patria, alla mia patria che amavo tanto… La mia memoria sarà vendicata… Popolo, ricordati qualche volta del tuo amico; ricordati che il tuo benessere dipende dalla tua unione con la rappresentanza nazionale, con lo stesso coraggio con il quale io ho sostenuto e difeso i tuoi diritti… Morirò degno di te!”. In aula uno dei presenti, un certo Villain d’Aubigny, descrive così la scena: “Danton si erge violentemente contro la perfidia dei suoi vili nemici… Il popolo grida al tradimento, all’inganno, è commosso, è intenerito, si agita…”.
Il tumulto prosegue. Danton, vedendo alcuni Sanculotti presenti in aula, sussurra: “Bestie fottute… Vedendomi passare griderete anche Viva la Repubblica!”.
Gli imputati sono ricondotti in prigione.
I giurati si ritirano per deliberare. Alcuni di essi, seppur accuratamente scelti da Fouquier, sono rimasti colpiti dalle parole di Danton e hanno un sussulto di indipendenza. Iniziano le discussioni, ma non si riesce a giungere ad una sentenza di morte!
Fouquier-Tinville ed Herman (pubblico accusatore e presidente del Tribunale di nuovo insieme) sferrano dunque il colpo finale: entrano nella stanza delle deliberazioni e danno lettura di una lettera che dicono provenga dall’estero e che sia stata rinvenuta a casa di Danton il giorno dell’arresto. Questa lettera, che probabilmente Danton ha sperato non fosse trovata, costituisce il motivo che spinge i giurati a condannare gli Indulgenti alla ghigliottina. In essa si trovano scritte delle parole che ad occhio nudo non sono immediatamente comprensibili, anche perché collegate da alcuni numeri, forse un cifrario segreto; i nomi sono indicati solo con le iniziali e il senso, probabilmente, è quello di una cospirazione a danno dei Giacobini in cambio di denaro, oppure per salvare la vita a Maria Antonietta. A questo punto i giurati sono costretti a condannare Danton e tutti gli altri alla pena di morte. Ducray viene incaricato di leggere la sentenza ai condannati. Si reca dietro la grata della prigione e inizia a leggere, ma Danton lo interrompe: “Me ne frego della tua sentenza!… Non voglio sentirla. Sarà la posterità a giudicarci: essa metterà il mio nome al Pantheon e il vostro alla berlina!”.
Dopo aver appreso la decisione del Tribunale, Danton ha uno scatto di collera ed esclama: “Cosa importa se muoio, ho speso bene i miei soldi, ho fatto bene baldoria, ho accarezzato molte donne… Andiamo a dormire”. Michelet gli attribuisce anche questa riflessione: “Ecco che tutto finirà in un pasticcio spaventoso… se avessi lasciato le mie gambe a Couthon e i miei coglioni a Robespierre le cose sarebbero potute andare avanti ancora per qualche tempo…”. Poi continua: “Moglie mia! Moglie mia! Figli miei! Non vi vedrò più…”.
Alle 16 di quello stesso giorno i condannati salgono sulle carrette per essere condotti al patibolo, e tra questi ci sono anche Danton e i suoi seguaci. Durante il lungo tragitto sono scortati dai gendarmi; la folla è immensa e silenziosa. Ancora una volta il popolo dimostra di avere una grande Paura! Danton ha un atteggiamento spavaldo e dignitoso, Desmoulins invece è molto provato: pur avendo le mani legate dietro la schiena, si dimena violentemente sulla carretta a tal punto da stracciarsi la camicia bianca che è possibile vedergli il petto nudo: “Povero! Povero popolo, sei ingannato!… I tuoi amici vengono uccisi!… Chi ti ha chiamato alla Bastiglia?… Chi ti ha dato la coccarda? Io sono Camille Desmoulins!…”. Le carrette passano davanti al caffè del Parnaso, dove parecchi anni prima Danton aveva conosciuto Gabrielle, sua prima moglie.
Percorrono rue Saint-Honoré e giungono davanti casa di Duplay, dove Robespierre vi abita dopo i fatti del Campo di Marte del 17 luglio 1791; le finestre sono chiuse, Maximilien è a letto in preda ad un esaurimento nervoso. Desmoulins si calma di botto e freddamente esclama: “Questa casa sparirà…”; Danton grida: “Io trascino Robespierre, Robespierre mi segue!”.
I condannati, mirando un cielo rossastro all’orizzonte e avvolti da un leggero vento di inizio aprile, scorgono da lontano la sagoma della ghigliottina; l’emozione inizia a prendere il posto dell’incredulità, ma tutti conservano un contegno dignitoso. Giungono ai piedi del patibolo. Fouquier-Tinville ha già predisposto ogni cosa: Danton sarà il quindicesimo ad essere giustiziato, così sarà costretto a vedere la morte dei suoi amici. Una volta scesi dalla carretta, Hérault de Séchelles vuole abbracciare Danton, ma una guardia glielo impedisce: “Imbecille! – gli rimprovera l’ex ministro (n.d.a.) – tu non impedirai alle nostre teste di baciarsi nel paniere”. Il primo ad essere ghigliottinato è proprio Hérault, poi seguono tutti gli altri. E’ il turno di Danton; pensa per un attimo che non rivedrà più la sua giovane moglie, poi rinviene e si dà coraggio. Il tribuno sale la scaletta, giunge al cospetto del boia Sanson e con voce ferma gli ordina: “Mostra la mia testa al popolo, ne vale la pena!”.
Sono circa le 18… la lama cade sul capo dell’uomo del 10 agosto. Danton è morto semplicemente, regalmente ci dice Michelet.
Subito dopo che la lama ha reciso la testa del grande tribuno, Sanson la mostra al popolo da una parte all’altra del patibolo: c’è silenzio, poi dalla folla si levano grida contrastanti. Alcuni applaudono (realisti, robespierristi e vili personaggi che hanno acclamato Danton fino al giorno prima), altri urlano: “Hanno decapitato la Francia!”. Così il drammaturgo Arnault descrive la scena: “Il giorno stava per finire e vidi ergersi, come un’ombra di Dante, quel tribuno che, mezzo illuminato dal sole morente, sembrava appena uscito dalla tomba più che pronto ad entrarci…”.
Con la morte di Danton iniziò, di fatto, la fine della Rivoluzione francese. E quando il popolo resta senza capi, scrive lo storico francese Edgar Quinet, esso stesso arretra.
Sia Robespierre che Saint-Just seguirono la stessa sorte di Danton dopo poco meno di quattro mesi dalla morte di quest’ultimo; furono infatti ghigliottinati – insieme ai loro seguaci – il 28 luglio di quello stesso anno, il 1794…
Ed ecco che la Storia ci insegna come la cultura del sospetto e la mentalità giustizialista hanno sempre sortito frutti fallimentari!
RIFLESSIONI GIURIDICHE:
Sul principio di irretroattività della Legge:
Sia nel processo a Danton che in quello ai girondini (quest’ultimo tenutosi a Parigi nell’ottobre del 1793), è rinvenibile una comune aberrazione giuridica in merito al principio di irretroattività della legge penale sancito dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (Art. 8: “La legge deve stabilire soltanto pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata”). Durante il processo ai Girondini (iniziato il 24 ottobre 1793), visto che la pubblica accusa era in grado di provare soltanto i reati di opinione (per i quali sarebbe stato quanto meno criminale emettere una sentenza di morte), e considerato che Fouquier non aveva prove per fondare eventuali crimini di natura controrivoluzionaria o anti-repubblicana, iniziò a palesarsi il pericolo che gli imputati avrebbero potuto cavarsela. Fu quindi il municipale Hébert a lamentarsene con i Giacobini, i quali, vedendo che il processo durava già da qualche giorno, iniziarono a preoccuparsi che Brissot e seguaci potessero evitare il patibolo e diventare, di conseguenza, accusatori essi stessi. Lo stesso Hébert propose al Club dei Giacobini, il giorno 28, di domandare alla Convenzione che la sentenza su Brissot e complici fosse pronunciata nelle 24 ore. Il Club non si lasciò scappare l’occasione e Robespierre propose il contenuto del testo da sottoporre al voto della Convenzione. Ecco la versione definitiva del decreto approvato dall’Assemblea: “art. 1. Dopo tre giorni di dibattito, il presidente del tribunale sarà autorizzato a chiedere ai giurati se la loro coscienza è sufficientemente istruita. Se essi rispondono negativamente, l’istruzione del processo sarà continuata fino a che essi dichiarino d’essere in grado di pronunciarsi…”. Ciò premesso, nel processo ai Girondini trovò pertanto applicazione una norma approvata dalla Convenzione Nazionale durante il corso del dibattimento processuale per fatti eventualmente commessi prima dell’entrata in vigore del decreto, in aperto contrasto con il principio di irretroattività della legge penale, infatti, se si fosse rispettata la disposizione di cui all’art. 8 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, la nuova norma votata dalla Convenzione avrebbe dovuto trovare applicazione per fatti verificatisi successivamente e in processi che si sarebbero tenuti di lì in avanti e non anche per quelli in corso. Medesima situazione si ripeté nel processo a Danton e agli Indulgenti, infatti il decreto votato dalla Convenzione (fatto votare da Saint-Just con il solito metodo terroristico) che prevedeva l’esclusione dal dibattimento processuale di quegli imputati che avessero oltraggiato la giustizia, trovò applicazione in un procedimento iniziato antecedentemente all’entrata in vigore del decreto e per fatti eventualmente commessi in un tempo antecedente all’approvazione dello stesso. Ecco a cosa conducono la cultura del sospetto e le logiche giustizialiste!
Svolgendo una breve comparazione con i giorni nostri, il principio di irretroattività della legge penale è sancito dall’art. 25 comma II della Costituzione (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”), dall’art. 2 comma I del Codice Penale (“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”) e dall’art. 7 comma I della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (“Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”). Ricordi inoltre il lettore che il principio di irretroattività della legge non vale solo per le disposizioni di carattere penale, ma è un principio valido per tutte le norme giuridiche; recita infatti l’art. 11 comma I delle Disposizioni sulla Legge in generale: “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
Mediti il lettore e ne faccia tesoro anche in merito a quelle che sono talune attuali dispute politiche nel nostro Paese
Su alcune comparazioni politico-giuridiche coi giorni nostri:
Il processo a Danton, definito da parecchi storici come “una parodia di giustizia”, merita alcune considerazioni. Vorrei chiedere inizialmente al lettore di fermarsi un attimo, e riflettere, su quanto sia pericolosa la contiguità tra l’organo che predispone l’accusa e l’organo che deve invece giudicare (ossia tra pubblico ministero e tribunale), e quanti danni alla libertà dei cittadini tale contiguità possa irrimediabilmente procurare. Durante lo svolgimento del processo a Danton e agli Indulgenti, la pubblica accusa rappresentata da Fouquier-Tinville e il tribunale rappresentato da Herman, svolsero in pratica lo stesso ruolo, senza alcun rispetto delle regole e senza alcuna osservanza del principio di separazione tra le due opposte funzioni, e ciò è ampiamente dimostrato dai bigliettini che i due giudici si passarono durante le udienze, dalla comunione di intenti, dai loro rapporti diretti con il Comitato di Salute Pubblica e dalla presunta lettera rinvenuta, a loro dire, a casa del tribuno parigino. E tutto ciò “alla faccia” delle garanzie sancite dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. Se pensiamo che, ancora oggi, magistrati inquirenti (pubblici ministeri) e magistrati giudicanti (appartenenti al tribunale) lavorano negli stessi palazzi, si incontrano nei corridoi e parlano tranquillamente tra di loro, vanno a prendere il caffè a braccetto, si trattengono insieme a pranzo e si scambiano opinioni praticamente su tutto, quanto meno sorge il sospetto che non esista, nei fatti, l’oggettiva terzietà dell’organo giudicante. Se in tribunale un magistrato inquirente incontra un magistrato giudicante (o viceversa), gli chiede tranquillamente di poter conferire con lui e in privato “si danno anche del tu”, e su quello che si dicono nelle segrete stanze nessuno ne sa niente… E’ da considerarsi equidistanza questa? Con tale modo di fare un magistrato giudicante può davvero essere terzo e imparziale? Provi un avvocato, che secondo la Costituzione è sullo stesso piano processuale del pubblico ministero (art. 111 della Costituzione), a chiedere ad un giudice o ad un sostituto procuratore di andare a prendere un caffè. La risposta la lascio immaginare. Lo stesso dicasi quando si va a bussare alla porta dell’ufficio di un giudice. Tra di loro si ricevono come e quando vogliono; gli avvocati devono, invece, fare l’anticamera o chiedere un appuntamento, semmai venga accordato… Alla “faccia” della Costituzione e dei princìpi da essa sanciti! Qualche anno fa vidi sui giornali (ma anche in televisione) la scena di una schiera di magistrati con addosso la toga e in mano una copia della Costituzione italiana allo scopo di volerla difendere contro i presunti attacchi della politica. Vorrei dire a quei magistrati che la Costituzione va difesa non solo quando fa comodo agli interessi dell’Ordine giudiziario, ma andrebbe protetta anche quando parla – ad esempio – delle effettive condizioni di parità tra accusa e difesa. Non è serio ergersi a paladini della Carta costituzionale solo quando è vantaggioso per gli interessi della categoria cui si appartiene. Se si vuole difendere seriamente la Madre delle Fonti del Diritto, lo si deve fare anche quando è sconveniente per i propri privilegi… non voglio attivare alcun tipo di polemica, quindi lascio al lettore ogni più ampia e libera considerazione! Per questi motivi occorre, ora più che mai, una riforma della giustizia che preveda la netta separazione delle carriere tra chi indaga e chi deve invece giudicare, e che quindi i magistrati inquirenti siano posti nella condizione di non dover conoscere personalmente o avere qualsivoglia tipo di rapporto, né fuori né dentro i luoghi di lavoro, con i magistrati appartenenti al tribunale. Questi, qualora si trovassero in una condizione di contiguità con la pubblica accusa, non farebbero altro che tradire quella giustizia alla quale il cittadino imputato – anche se criminale – fa legittimo affidamento! E’ proprio la Costituzione italiana a sancire il principio secondo il quale accusa e difesa debbano essere posti sullo stesso piano (condizioni di parità), e che a giudicare debba essere un giudice terzo e imparziale, quindi non sto dicendo nulla di nuovo, ma nella realtà giurisdizionale italiana l’avvocato è in una posizione di netta inferiorità rispetto al magistrato inquirente, il quale, per effettiva “vicinanza” con il magistrato giudicante, è posto in una posizione di evidente superiorità. Tale situazione, in uno Stato di Diritto come l’Italia, non può assolutamente continuare ad esistere. Necessita pertanto un intervento legislativo urgente e riformatore.
Avv. Giuseppe Palma del Foro di Brindisi
FONTI BIBLIOGRAFICHE (in ordine alfabetico) consultate dall’Autore:
Sulla Rivoluzione francese e sul processo a Georges Jacques Danton:
- a) Bertin Claude (scritto sotto la direzione di), I grandi processi della Storia. Il processo di Luigi XVI e il processo Danton, Edizioni di Crémille, Ginevra 1970;
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- c) Lefebvre Georges, La Rivoluzione francese, Einaudi Editore, Torino 1958, ristampa del 1979;
- d) Mathiez Albert, Robespierre, Newton Compton editori, Roma 1976;
- e) Mazzucchelli Mario, Il Tribunale del Terrore. I grandi processi della Rivoluzione francese –, Longanesi & C., Milano 1969;
- f) Michelet Jules, Storia della Rivoluzione francese, vol. I, Rizzoli Editore, Milano 1955;
- g) Michelet Jules, Storia della Rivoluzione francese, vol. II, Rizzoli Editore, Milano 1956;
- h) Mignet François A., La Rivoluzione francese, Editoriale Lucchi, Milano 1963;
- i) Quinet Edgar, La Rivoluzione, Einaudi Editore, Torino 1953, ristampa del 1974;
- j) Soboul Albert, La Rivoluzione francese, volume I, Pugliese Editore per gentile concessione di Editori Laterza, 1972;
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- l) Soboul Albert, La Rivoluzione francese, Newton Compton editori, Roma 1988;
- m) Venturi Alfredo, Lo scoppio del fulmine. La Rivoluzione francese come non è mai stata raccontata, Hobby e Work, Bresso 2010;
- n) Walter Gérard, La Rivoluzione francese, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1970.
Sulla Storia del Diritto (monografie, saggi e testi normativi):
- a) Betti Ugo, Corruzione al Palazzo di Giustizia, introduzione al libro di Antonucci Giovanni, Edizione integrale, Tascabili Economici Newton, Roma 1993;
- b) Biscaretti di Ruffia Paolo, Le Costituzioni di dieci Stati di “democrazia stabilizzata”, Giuffrè, Milano 1994;
- c) Codice di Procedura Penale italiano (1988 e successive modifiche/aggiornamenti);
- d) Codice Penale italiano (1930 e successive modifiche/aggiornamenti);
- e) Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (1950 e successive modifiche/aggiornamenti);
- f) Costituzione francese del 1791;
- g) Costituzione francese del 1793;
- h) Costituzione romana del 1849;
- i) Costituzione italiana vigente (1948 e successivi interventi riformatori);
- j) Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789;
- k) Disposizioni sulla legge in generale – altrimenti dette Preleggi (Codice Civile italiano del 1942 e successive modifiche/aggiornamenti);
- l) Falcone Giovanni, intervista rilasciata al giornale La Repubblica, 3 ottobre 1991;
- m) Hespanha Antonio M., Introduzione alla Storia del Diritto europeo, Il Mulino, Bologna 2003;
- n) Legge dei Sospetti (1793);
- o) Legge del 22 pratile dell’anno II (1794);
- p) Livadiotti Stefano, Magistrati – L’ultracasta, Bompiani Editore, Milano 2009;
- q) Martines Temistocle, Diritto Costituzionale, Giuffrè, Milano 2010;
- r) Padoa Schioppa Antonio, Storia del Diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Il Mulino, Bologna 2007;
- s) Paradisi Graziano, Storia del Diritto medievale e moderno (Manuale), Edizioni Giuridiche Simone – Gruppo Editoriale Esselibri – Simone, III Edizione, 2010;
- t) Pene Vidari G. Savino, Storia del Diritto. Età medievale e moderna, Giappichelli, Torino 2011;
- u) Regio Decreto num. 12 del 30 gennaio 1941 (Ordinamento Giudiziario – G.U. num. 28 del 4 febbraio 1941);
- v) Romano Sergio, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni. Perché l’Italia non è mai stata un Paese normale?, prima edizione saggistica TEA, Milano 2012;
- w) Saitta Armando, Costituenti e Costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875), Giuffrè, Milano 1975;
- x) Sciumè Alberto (a cura di), Il diritto come forza. La forza del diritto. Le fonti in azione nel diritto europeo tra medioevo ed età contemporanea, G. Giappichelli Editore, Torino 2012.
PER SAPERNE DI PIU’: si consiglia al lettore di consultare i seguenti testi scritti dal medesimo Autore del presente articolo:
- a) Giuseppe PALMA, “La Rivoluzione francese e i giorni nostri. Dall’Ancien Régime alla nuova Aristocrazia europea. I danni causati dal giustizialismo, dalla cultura del sospetto e dall’uso improprio della giustizia: ieri come oggi” – (Editrice GDS, ottobre 2013 – disponibile anche in formato E-Book, novembre 2013).
- b) Giuseppe PALMA, “Il Fiore e la Lama […]” – (GDS Edizioni, giugno 2011 – disponibile anche in formato E-Book, aprile 2012).