L’ultimo rumore che senti, quando finisci di ascoltare È finita la pace, è il suono di una bolla che viene fatta scoppiare. Con il suo settimo album pubblicato stanotte a sorpresa, Marracash ha nel mirino del suo stilo non solo una, ma molte bolle. Le cita tutte, o quasi, in CRASH: la bolla finanziaria e speculativa, quella dei confini e dell’immigrazione, quella immobiliare e quella della pandemia, quella dell’AI, dei concerti live e della “voglia di cambiare il mondo con i like”. Ma esiste una bolla delle bolle, una iper-bolla che le contiene tutte. E anche se il rapper, nella copertina, guarda la superficie riflettente e si ritrae “fuori dall’orbita di questo circo”, quello che segue non è l’esercizio sterile di un maestrino che punta “il dito come un missile” (PENTOTHAL), ma una considerazione profonda sull’utilità stessa della cultura, della musica, delle conversazioni in un’epoca piena di parole e povera di pensiero.
In fondo, un disco non sembra forse una bolla? Ma questa bolla è diversa. Non è vuota di contenuti, tutta superficie, come la bolla della musica mainstream italiana che viene presa metaforicamente a sberle nella traccia di apertura, POWER SLAP, un “branco di fenomeni da baraccone”, la cui popolarità è a sua volta frutto di una bolla discografica (“va bene così, perché fanno tutti platini, premiati in TV, tutti bravi su Esse Magazine”). Dentro la bolla della musica che va per la maggiore si nasconde un vuoto, l’uniformità asfittica e conformista di immaginario, linguaggio, costumi, perfino produttori e autori: “ti ricordo bimbo chi saresti con ‘sta sberla, senza Sanremo, senza l’estivo, senza Petrella” (di lui abbiamo scritto, indirettamente, appena una settimana fa). Così, mentre siamo mitragliati dall’arpeggio di Asturias (ma suona come una strumentale dei Goblin se Dario Argento avesse diretto film a Bollywood), riceviamo la prima doccia fredda di un disco che non ha mezze misure e non tira indietro i fendenti, come dimostrato dal titolo.
Tra le righe di questo album c’è la considerazione che il rap in Italia è diventato generalista senza crescere mai, o quasi. Questa è la bolla del “presente non vissuto e del passato come rifugio”, per citare CRASH: non solo un atteggiamento sociale e politico di rifiuto del nuovo, ma una posa culturale che priva di ossigeno tutta l’atmosfera. Se dovessimo trovare un filo conduttore nel rap americano di alto profilo del 2024, ci sarebbe il tema dell’età e delle aspettative: Tyler, The Creator parla delle maschere e delle abitudini in Chromakopia mentre osserva i suoi coetanei crescere e mettere su famiglia; e in GNX Kendrick Lamar mette alla prova la dicotomia tra rap conscious concentrato sui temi e rap da club, pensato solo per il divertimento e le vibe. Superato il mezzo secolo di storia, questo genere musicale deve saper stare in piedi con entrambe le gambe, come del resto ha dimostrato di saper fare nei mercati che scimmiottiamo senza capire. Considerare il rap ancora come una musica per adolescenti, che può spartire le sue attenzioni solo tra la rabbia giovanile e l’aspirazione al successo, è una fallacia che risulta particolarmente comoda al mercato, ma non agli artisti né agli ascoltatori. Marracash prova a spezzare questa impasse, a scoppiare la bolla che spreca tutte le sue energie potenziali solo per tenere integra una superficie riflettente. E per farlo, deve puntare la penna anche verso di sé. A più riprese, l’artista fa scoppiare anche la sua bolla, quella delle dipendenze chimiche in DETOX/REHAB (lo dice esplicitamente, “ho la mia bolla”), delle dipendenze comportamentali (PENTOTHAL) e di quelle sessuali (TROI*). Si potrebbe dire, anzi, che il tema di fondo di mezzo album è la sobrietà, altro argomento che da Danny Brown in giù ha dominato l’ultimo paio d’anni di conversazione nel rap americano di prima scelta.
Fare i conti con i propri limiti non è solo un atto di umiltà: del resto, possiamo considerare davvero umile uno che – a buon diritto, s’intende – usa l’appellativo di “king”? No, misurare i confini e la tenuta della propria bolla è solo un atto di integrità artistica. Che porta i suoi frutti nella canzone d’amore del disco, LEI: non un brano che, celebrando un oggetto del desiderio, finisce per consacrare il desiderante; semmai una canzone su una possibilità (“non credo che esista”) che guida come “una costellazione”. LEI arriva al culmine di un trittico sulle relazioni, con TROI* concentrato sull’ossessione per il sesso e l’edonismo, e PENTOTHAL dedicato – pensiamo – alla “Crudelia” dell’omonimo brano contenuto nell’album PERSONA. Negli affari sentimentali è meglio seguire una via dritta e aspirare alle stelle: non accettare la propria condizione di indifeso di fronte alle dipendenze; né dipingersi come vittima degli eventi e arrendersi al proprio “lato peggiore” (VITTIMA è il brano che arriva subito prima, idealmente fa già parte di questo discorso). Semmai, bisogna continuare a cercare. Nell’arte, guarda caso, funziona allo stesso modo: potremmo credere, anzi, che tutta questa storia d’amore non sia altro che una serenata allegorica alla musica, una lezione su due piani di lettura – non sarebbe nemmeno la prima volta, se consideriamo ∞ Love dall’ultimo disco.
Esplorare le possibilità, non rinchiudersi nelle certezze che funzionano ma non portano da nessuna parte, non farsi incatenare dal materialismo (“il lusso è un guscio”, una bolla molto solida, ci dice). Questo è il compito di un artista. Gli altri che non ci provano nemmeno a guardare oltre, invece, sono solo cantanti. Rinchiusi nella loro bolla, non vedono cosa li circonda. Paradossalmente, non vedono nemmeno cos’hanno dentro. È finita la pace è un disco politico come sa farne solo Marracash: mentre la bolla della musica si concentra sull’ombelico e riposa sugli allori di un successo che sembra a sua volta fragile, il rapper milanese prende di petto l’attualità nella sua interezza. Non è soltanto la citazione di Giorgia Meloni, di un “governo di fasci”, della “zona di interesse”, di “Evil Musk”, del genocidio di Gaza (forse l’unico rapper italiano ad averlo chiamato con questo nome in un suo testo, ma potrei sbagliarmi), tutto il densissimo materiale di marciume che viene osservato e dissezionato in un altro trittrico: CRASH, GLI SBANDATI HANNO PERSO, È FINITA LA PACE. Semmai, Marra lamenta la fine della prospettiva di un domani, il fatto che accettiamo il “rumore come ninna nanna”, e quindi che perdendo di vista il resto del mondo rischiamo di perdere anche noi stessi.
Come in ogni disco di Marracash, non sono soltanto le parole a dirci tutto questo. La musica, orchestrata nuovamente con i compagni di viaggio Marz e Zef che producono per intero il disco, “parla” in modo altrettanto efficace. Perché ancora una volta l’artista scrive il suo decalogo. Il primo comandamento: non esiste nessuna melodia troppo poco popolare per essere campionata. Vedi, per esempio, MI SONO INNAMORATO DI UN AI, che pesca la splendida LUNEDÌ della cantautrice e producer sarda BLUEM. Secondo comandamento: se riprendi un beat, fallo tuo. Vedi, in questo caso, come GLI SBANDATI HANNO PERSO peschi a piene mani la strumentale di Crazy dei Gnarls Barkley ma ci costruisca sopra una melodia originale (far rotolare “fuori di testaaa” dove la canzone originale diceva “craaazy”, ma con tutt’altro flow, è un tocco da maestro). Terzo: rendi omaggio ai maestri, se un giorno vorrai essere considerato tu stesso un maestro. Il sample di Firenze (Canzone triste) di Ivan Graziani, che sorregge la title track, ne è un esempio lampante, perché di quella canzone recupera la prospettiva personale ed epocale, uno squarcio dentro un Paese in cui le persone che problematizzano le cose non trovano spazio. Quarto: ricorda a tutti da dove vieni, perché questo dirà dove vuoi andare. In questo caso, l’eco dub/trip-hop di FACTOTUM, che ricorda Karmacoma dei Massive Attack, ci fa pensare a come l’enorme impronta mainstream del profilo artistico di Marra non pieghi nemmeno per un attimo la sua indipendenza politica, fieramente contraria allo status quo. Quinto: vola alto, ma non essere banale. In VITTIMA Marracash pesca di nuovo dall’opera lirica (tre anni fa usava un pezzo dell’Aida in CLIFFHANGER) usando “Un bel dì vedremo” dalla Madama Butterfly di Puccini come spettro di una melodia che, nel modo in cui viene manipolata, riesce a richiamare non il mondo polveroso dei teatri, ma il rap east-coast di metà anni ‘90, illudendoci di sentire il synth di Ready Or Not dei Fugees (cioè di Boadicea di Enya) o quello sgocciolante di If I Ruled The World di Nas con Lauryn Hill. Sesto: sei tu che detti lo stile, non lo stile che detta te.
Cioè, Marracash può rendere cool anche i Pooh, che dai tempi dell’interpolazione in Un attimo ancora dei Gemelli Diversi (forse la canzone meno cool e più popolare del rap italiano) avevano visitato l’hip-hop nostrano con grande rarità. Succede in SOLI, dove il sample di Uomini soli ci aiuta a esplorare il tema della solitudine (per l’appunto), invitandoci anche a riflettere sull’eredità di un pop che è stato sbertucciato per decenni dai “cool kids” della musica italiana, e quindi mai capito e apprezzato nelle sue qualità intrinseche e oggettive. Marracash può riscrivere queste regole d’ingaggio, perché è quello che a un artista viene richiesto: dirci cosa vogliamo sentire, quando non abbiamo idea di volerlo sentire. E non, come fanno i colleghi nella bolla, rimescolare quello che altre persone, in altri luoghi, hanno stabilito funzionare, e che per questo ci aspettiamo già. (Mancano altre quattro comandamenti, ma un vero King non ha bisogno di più regole di quante ne servano).
La bolla della musica, naturalmente, non è “il” problema. Ma è una parte molto esterna e luminosa di questa iper-bolla dentro cui siamo tutti intrappolati. Tornare senza promozione (di nuovo) con un altro lavoro così stratificato eppure così puntuale, così complesso eppure così diretto è l’unico modo per far scoppiare tutte le bolle in un colpo solo. Quando una bolla scoppia, che rumore fa? Pop. Ma questo disco non ce l’ha tanto con la “musica pop”: potremmo quasi dire che questo disco, in cui tanti pezzi si chiudono con un ritornello extra, sia il suo più “pop”. Semmai il problema è il “pop” come brodo culturale nel quale ci si bagna ogni giorno. Il pop come distrazione di massa, un infinito intrattenimento a beneficio delle piattaforme che parte da Temptation Island e finisce con i meme dei politici sui social media, che passa dagli influencer civili “cosplayer” che si riscoprono Giuseppe Cruciani fino alle infinite e inutili opinioni su Teo Mammuccari. Un intrattenimento pericoloso, spaventoso (i toni horror sono frequenti nell’album), che non ci porta da nessuna parte, solo ad avvitarci su noi stessi. Il rap in Italia, autoreferenziale e distaccato dal mondo nella maniera in cui parla di soldi e relazioni, ingenuo o addirittura opportunistico nel modo in cui usa gli archetipi della periferia o temi di salute mentale, rappresenta perfettamente questo moto: una spirale sempre più stretta, alla quale Marra è tornato per dare una sberla. Scopriremo solo con il tempo se dopo questo schiaffo partirà un nuovo giro di giostra, o saremo costretti tutti quanti a massaggiarci la guancia e contemplare il mondo, fuori dalla bolla.
Contemporaneamente alla pubblicazione a sorpresa del nuovo disco, è stata resa ufficiale l’apertura di una nuova data a San Siro, il 26 giugno. La seconda data milanese si aggiunge alle sei tappe già annunciate del tour Marra Stadi 2025