La notte è senza luna a Città del Messico, con grandi occhi che fissano la luce grigiastra che filtra delle finestre. La notte piange, e il cuscino di Frida Kahlo diventa umido e freddo. Lei lo cerca: cerca il corpo immenso del suo amore accanto a lei. Ma non lo trova. Allora la notte la precipita nell’assenza di Diego Rivera. La notte brucia Frida d’amore e il suo corpo, arca mutilata, reclama qualche momento di calore. Diego le manca. Le manca tanto. Perché il suo corpo non può concepire che una qualche strada o coordinata geografica la separi da lui. Sono le quattro e trenta del mattino del 12 settembre del 1939, e lui le manca.
Il corpo le fa malissimo. Accanto a lei non c’è nessuno che renda dolce la notte. Si alza dal letto dolente, come il sole in un’alba di tempesta. Si lega gli splendidi capelli bruni in una coda, si sciacqua il viso. Nella sua vestaglia, claudicante e sexy, si avvicina al cavalletto. Si siede di fronte alla grande tela bianca. E reinventa il cosmo. Ha in mente un quadro epico, commissionatole da José Domingo Lavin, suo mecenate, sul tema del Mosè freudiano. Ha imparato a rifare il cosmo con pennelli e colori quand’era una ragazza diciottenne, ventiquattro anni prima, costretta a letto con la colonna vertebrale rotta.
Un terribile incidente le aveva letteralmente spezzato la vita: mentre viaggiava in autobus, un tram taglia bruscamente la strada e l’autobus finisce contro un muro. Tra i molti feriti, Frida è una delle più gravi. Non solo la colonna vertebrale è danneggiata, ma anche la gamba sinistra, il piede destro, la spalla sinistra, l’osso pelvico, un fianco, l’utero. Oltre trenta operazioni chirurgiche le salvano la vita, ma la recludono in un’esistenza di solitudine. In quello stato di degenza e dolorosa prigione, impara a dipingere. I genitori le regalano un letto a baldacchino con sopra uno specchio. E così, inizia i suoi autoritratti. La prima cosa che fa quando è in grado, dopo molti mesi, di tirarsi su dal letto, è portare i suoi esperimenti pittorici dal più grande esperto d'arte che le sia noto: Diego Rivera. Non è soltanto il più celebre pittore muralista messicano: è un attivista politico, un dongiovanni, un capo carismatico, un artista originale e dotatissimo. È una star. Fisicamente, lui e Frida non potrebbero essere più diversi.
Lui, un grosso omone dal sorriso largo e i modi bruschi e affascinanti; lei, una fragile falena dagli occhi di notte, il corpo sensuale, il sorriso avvenente. E anche il loro modo di dipingere è abissalmente distante. Quello di Rivera è un realismo narrativo e composto, che si rifà all’antica arte precolombiana. Forse per questo rimane tanto impressionato dai dipinti di Frida: da quel modo di utilizzare il colore impastato, dalle pennellate decise, dal cromatismo acceso; ma, soprattutto, dal simbolismo che lei riesce a coniugare con il gusto della realtà: quel mettere insieme i tratti più intimi e terribili dell’esistere con le visioni interiori della mente.
All’inizio lei non crede molto ai complimenti di Rivera: pensa che sia la solita strategia del pittore cascamorto che cerca di portarsi a letto una giovane carina. C’è anche questo, ma non solo. Diego vede davvero in Frida un talento straordinario. Ed è convinto che diventerà un’artista che non ha avuto pari in Messico. Forse quello che Rivera non prevede è quanto e come si sarebbe innamorato di lei. E di certo Frida, quel giorno, non può certo immaginare che avrebbe persino sposato Diego Rivera, e che insieme avrebbero dipinto e viaggiato, combattuto per la causa comunista e incarnato per il mondo i valori messicani. Ma Diego, straordinario compagno, sarebbe stato per lei anche il più tremendo dei mariti: infedele, bugiardo, fedifrago. Sarebbe arrivato a tradirlo persino con sua sorella.
Anche la vita sentimentale di Frida sarebbe stata variegata e disordinata. Nel suo cuore, però, Diego sarebbe rimasto impresso a fuoco, con segni d’amore. Anche nel divorzio: anche nell’odio, anche nell’assenza. Per questo, la notte del 12 settembre del 1939 si siede al cavalletto e dipinge, e ha in animo di rappresentare la struttura cosmica dell’universo, inserendo nelle ali della tela le effigi della tradizione azteca e gli idoli della riscossa politica moderna, pensa a lui. Al centro del dipinto Mosè, sotto il sole, fonte di vita, che si irraggia verso l’umanità, circonfusa dalla presenza della morte; cadono gocce, segno dell’amore generatore, e rami, segno della vita che non si esaurisce, energia senza fine. È la prima volta, dopo tanti anni, che Frida utilizza la tecnica del murales in miniatura. La tecnica di Diego. Anche se è lontano, lei pensa a lui. Lui, il poeta visionario, con un occhio veggente sulla fronte. E forse per questo è il Mosè, nel dipinto, ha il volto di Diego bambino.
Ancora qualche pennellata, e Frida torna a letto. Tra poco si leva il sole. La notte urla e si strappa i veli, mentre il corpo di lui resta introvabile. La pittrice pensa che il titolo non potrà essere quello che aveva pensato all’inizio, cioè “Mosè o il nucleo solare”. Il quadro parla della venuta al mondo di Diego Rivera. Il mattino, al risveglio, Frida concepirà un nuovo titolo. “La nascita dell’eroe”