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Il mito eroico della Grande Guerra: 100 anni fa l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando D’Asburgo

Sono passati cent’anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Un evento epocale che mise fine alla prosperità della Belle époque per inaugurare la società di massa del Novecento.
A cura di Marcello Ravveduto
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Alla domanda come cominciò la Prima guerra mondiale chiunque vi risponderebbe allo stesso modo: il 28 giugno 1914 si tenevano le solenni celebrazioni della festa nazionale serba; l'arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e la moglie Sophie Chotek von Chotkowa si erano recati a Sarajevo in visita ufficiale per l’occasione. Mentre sfilavano nella loro carrozza, il diciannovenne nazionalista serbo Gavrilo Princip esplose da distanza ravvicinata alcuni colpi di pistola uccidendo l’erede al trono d'Austria-Ungheria. Dal tragico episodio scaturì una crisi diplomatica che infiammò le tensioni latenti e segnò l'inizio del conflitto in Europa.

Sono passati cento anni da quell’evento che segnò violentemente la fine della Belle époque aprendo definitivamente la strada al Novecento e all’affermazione della società di massa. La Grande guerra pose fine ad un ventennio di forte espansione economica dei paesi industrializzati (Inghilterra, Francia e Germania) con prezzi in costante crescita e miglioramento del reddito pro-capite nonostante il vertiginoso aumento della popolazione.

Lo sviluppo fu determinato dal protagonismo di nuovi ceti che salivano alla ribalta della storia anche grazie alla diffusione dell’istruzione tra le famiglie della borghesia urbana. L’effetto di questa progressiva alfabetizzazione fu la formazione dell’opinione pubblica: in Europa il numero delle testate giornalistiche (tra il 1880 e il 1900) raddoppiò e con esse presero piede i “new media” (la fotografia, il cinema, il fonografo). Si passò rapidamente dalla civiltà della scrittura a quella delle immagini.

Si crearono le basi di una massificazione che trovava espressione, a livello politico, nell’allargamento al diritto di voto (con il suffragio universale maschile in tutti i paesi dell’Europa occidentale) e nella formazione dei partiti di massa e delle organizzazioni sindacali, mentre a livello economico prendeva corpo il mercato dei beni destinati all’uso quotidiano.

Intanto era cambiata la struttura della famiglia (da estesa a mononucleare) e si modificavano i rapporti di forza tra le classi sociali. Il ceto medio urbano si allargava inglobando i dipendenti del pubblico e del privato e la stessa classe operaia cominciava a differenziarsi tra manodopera generica e lavoratori qualificati.

Insomma, entrarono in crisi (anche grazie alle numerose invenzioni tecnologiche e scoperte scientifiche: la relatività di Einstein, la lampada e il fluoroscopio – ovvero i raggi x – di Edison, il cinematografo dei fratelli Lumière e la foto istantanea della Kodak) i valori, considerati immutabili, dello spazio e del tempo e la percezione del mondo basata sul confronto di coppie oppositive (opaco/trasparente, interno/esterno, vuoto/pieno, pubblico/privato, ecc.).

Le stesse gerarchie sociali erano messe in pericolo di fronte al passaggio da un’economia di libera concorrenza ad una sempre più caratterizzata da cartelli e trusts che provocava l’unificazione di gusti e dei desideri collettivi. La società pareva regolata da forze impersonali, oscure, che minacciavano l’individuo pronto a divenire, come scriverà il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, «uomo-massa». Il sistema delle relazioni sociali non passava più attraverso le piccole comunità tradizionali ma iniziava a far capo alle grandi istituzioni nazionali (apparati statali, partiti, ecc.) che esercitavano un peso crescente sulle decisioni pubbliche e sulle scelte individuali.

Lo scoppio della guerra sembrava, invece, riattualizzare quei valori che la vita moderna rendeva ormai anacronistici. Era l’esempio visibile di una contrapposizione tra società e comunità: ad una società divisa in classi confliggenti l’esperienza bellica contrapponeva una comunità intesa come unità d’intenti, dove non valevano le leggi del profitto individuale e l’egoismo della vita civile ma quelli “naturali” dell’altruismo e della generosità (l’azione in guerra era gratuita, dettata da valori etici e non da fattori meramente utilitaristici).

Si generava, così, nelle generazioni chiamate alle armi il mito della guerra come semplificazione della complessa società industriale. Tutto appariva più chiaro: da una parte il bene dall’altra il male.

Nelle trincee le distinzioni sociali parevano scomparire: l’ordine era fondato sulle funzioni naturali (comandare/ubbidire) e non rispecchiava lo status, bensì i meriti e le capacità. Come ebbe a scrivere Ernst Junger: «È come il diluvio. Si è tornati a uno stato primitivo come tra selvaggi. L’ingegno dell’uomo conta fino ad un certo punto; quello che conta è l’istinto di milioni di uomini».

Ben presto, però, ci si accorse che la guerra finiva per rafforzare la massificazione che stava prendendo piede nella società civile: il soldato era un “oggetto” senza qualità; più era rozzo, ignorante, passivo, più era possibile plasmarlo, manipolarlo, renderlo, in definitiva, un ingranaggio della macchina bellica.

Il mito della Grande guerra servì, allora, a sanare la contraddizione tra le aspettative suscitate e la sconcertante realtà dei fatti. Quando il «diluvio» passò niente più era come prima.

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