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Il martirio politico di Giacomo Matteotti

Novant’anni fa il deputato socialista prese la parola alla Camera dei Deputati per denunciare la violenza fascista e chiedere l’annullamento delle elezioni. Lo avevano minacciato e si aspettava una feroce reazione ma la difesa della libertà veniva prima di tutto.
A cura di Marcello Ravveduto
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È venerdì. Il sole è alto, luminoso. Una giornata di fine maggio. L’anno è il 1924. Roma sonnecchia in attesa del giorno di riposo. Alla Camera dei Deputati è stata convocata l’assemblea per discutere i risultati elettorali del 6 aprile. La Lista Nazionale, composta dal Partito nazionale fascista alleato con il blocco liberal-nazionalista, conquista 355 seggi su 535 grazie al premio di maggioranza previsto dalla “legge Acerbo”. La seduta del 30 maggio si preannuncia burrascosa. Si è diffusa la voce che il deputato socialista Giacomo Matteotti interverrà per chiedere di invalidare le elezioni. Una vera provocazione.

Gli esponenti della maggioranza annunciano alla stampa che sederanno con il piombo chiunque reclamerà l’annullamento del turno elettorale. Il deputato di Rovigo si sporge dal banco dell’aula parlamentare e contesta “in tronco la validità dell’elezione della maggioranza”. Accusa il Governo di voler mantenere il potere con la forza. Gli elettori non hanno potuto esprimere la propria volontà, “perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c'era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso”.

Una milizia armata ha il compito di sostenere il Governo fascista con la forza, quand’anche venisse a mancare il consenso elettorale. A uomini di tale risma è stata affidata la custodia dei seggi circoscrizionali. Roberto Farinacci lo interrompe, lo deride e, poi, passa alle minacce. Matteotti continua. Cita i casi più significativi di intimidazione tesi ad impedire la ratifica delle liste avverse al Pnf: Reggio Calabria, Iglesias, Melfi, Genova. Ma non basta. È stato impedito alla maggior parte dei candidati socialisti e popolari di tenere pubblici comizi.

“Su ottomila comuni italiani, e su mille candidati delle minoranze, – dice il deputato socialista – la possibilità è stata ridotta a un piccolissimo numero di casi, soltanto là dove il partito dominante ha consentito per alcune ragioni particolari o di luogo o di persona… Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell'avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate!”.

Volano insulti e gesti scomposti. Il Presidente della Camera, Alfredo Rocco, tenta di togliere la parola al deputato. Matteotti protesta e gli viene intimato di esprimersi “prudentemente”. Riprende la parola. Ricorda all’assemblea l’omicidio dell’onorevole Antonio Piccinini, assassinato nella sua casa, per aver accettato la candidatura nel Partito Socialista unitario, e rimarca la diffusa pratica di brogli elettorali: dalla monopolizzazione dei rappresentati di lista alla minaccia fisica dell’elettore, dall’intercettazione del certificato elettorale al controllo del voto attraverso le preferenze.

“Voi dichiarate ogni giorno – continua nel suo intervento – di volere ristabilire l'autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l'intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo… Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni”.

Da destra partono fischi e grida, dalla sinistra arrivano gli applausi. Matteotti siede nel suo scranno. Ai compagni di partito che gli stringono la mano dice: “Io il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. La proposta di Matteotti di far invalidare l'elezione di almeno un gruppo di deputati eletti illegittimamente viene respinta dalla Camera con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Ora ha la certezza che il suo duro intervento scatenerà una reazione violenta ed estrema.  Allora perché l’ha fatto? Vuole morire?

Giacomo Matteotti ha esercitato il suo libero arbitrio ed ha scelto: non può rimanere indifferente dinnanzi allo “scandalo” morale del fascismo. Sente di dover agire e parlare per testimoniare con i fatti ciò che pensa. Mette in gioco la vita perché è disposto a dire ciò che è necessario fare. Prima delle elezioni aveva scritto a Filippo Turati: "Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui; la nostra resistenza al regime dell'arbitrio dev'essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste… un Partito di classe e di netta opposizione non può accogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano".

La verità va affermata con un atto di libertà, di cui assume il rischio e le relative conseguenze. Un atto che lo identifica e lo distingue dalla massa. Matteotti ha il coraggio della scelta. Le azioni conseguenti sono ormai storia: il 10 giugno 1924 è sequestrato ed ucciso. Il corpo sarà rinvenuto il 16 agosto successivo in stato di avanzata decomposizione. Il suo martirio politico sarà fonte di ispirazione per tanti giovani che decisero di salire in montagna a combattere la loro e la nostra Resistenza.

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