Il mancato protagonismo dell’ONU a settant’anni dalla nascita
Sono passati settant’anni dalla firma dello Statuto dell’Onu, sottoscritto a San Francisco il 26 giungo 1945. Centoundici articoli suddivisi in diciannove capitoli. Gli obiettivi assegnati all’Organizzazione delle Nazioni Unite sono sanciti nel primo articolo:
1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale ed a tale scopo prendere efficaci misure collettive per prevenire o allontanare ogni minaccia contro la pace; reprimere atti di aggressione o altre violazioni della pace; raggiungere con mezzi pacifici ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero mettere in pericolo la pace.
2. Sviluppare tra le Nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto dei principi dell'uguaglianza dei diritti e dell'autodecisione dei popoli ed adottare ogni altra misura atta a rafforzare la pace universale.
3. Ottenere la cooperazione internazionale nella soluzione di problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.
4. Costituire un centro per il coordinamento delle attività delle nazioni, tese al conseguimento di questi obbiettivi comuni.
L’organismo sovranazionale porta nel nome l’impronta delle sue origini: “Nazioni Unite” era la denominazione indicante l’alleanza di Stati in guerra contro le potenze del Tripartito (Germania, Giappone, Italia) che, aderendo ai principi della Carta Atlantica, il 1° gennaio 1942 a Washington, si impegnarono a mettere in comune per le esigenze belliche le proprie risorse e a non concludere un armistizio e una pace separata con i nemici.
Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna avviarono, così, un percorso a tappe (conferenze di Mosca 19-30 ottobre 1943, Dumbarton Oaks 21 agosto-7 ottobre 1944 e Yalta 4-11 febbraio 1945), con l’intento non solo di suddividere, nel dopoguerra, le aree territoriali su cui espandere il controllo militare e ideologico ma anche di costruire un’organizzazione internazionale per il mantenimento della pace, basata sul principio della sovrana uguaglianza degli Stati membri.
L’organizzazione nasceva con il preciso scopo di affidare la tutela della pace nel mondo alle maggiori potenze internazionali (ovvero ai componenti permanenti del Consiglio di Sicurezza) limitando il più possibile, nelle situazioni di minaccia, l’uso unilaterale della forza armata da parte degli Stati. Tuttavia, nel contesto della Guerra fredda la facoltà di veto concessa ai membri permanenti del Consiglio, che impedisce tutt’ora di procedere in senso contrario alla volontà anche di una sola di tali potenze, precluse il formarsi di una volontà comune sulle principali crisi e conflitti internazionali.
Inoltre, l’impegno assunto dagli Stati membri di rendere esecutiva una forza armata dell’ONU rimase solo sulla carta, rendendo impossibile azioni militari intese a fermare e a reprimere atti di aggressione o altre gravi violazioni della pace. L’unico intervento incisivo si ebbe nel 1950 quando il Consiglio di sicurezza autorizzò l’uso degli eserciti per reagire all’attacco portato dalla Corea del Nord alla Corea del Sud: autorizzazione accompagnata da una massiccia mobilitazione di truppe statunitensi che respinsero le forze nordcoreane.
Nonostante la paralisi del Consiglio di sicurezza, l’ONU può comunque vantare dei successi legati alle operazioni di polizia internazionale con l’invio dei Caschi blu (UN peacekeeping forces) che hanno assicurato, nel corso degli anni, sia il rispetto di accordi di cessate il fuoco, sia il mantenimento di zone cuscinetto fra le parti belligeranti (Peace-keeping).
Dopo la caduta del Muro di Berlino i mutamenti intervenuti hanno inciso negli equilibri dell’ONU. Dal 1991 al 1993 si aggiunsero ben 17 nuovi Stati membri ma il dato più eclatante era la dissoluzione dell’URSS. Di fatto l’Onu rimaneva l’unico contraltare (formale ma non reale) al dispiegamento dell’unilateralismo statunitense proprio grazie al sistema dei veti che, nella fase antecedente, aveva trasformato le Nazioni Unite nel principale foro internazionale della guerra fredda. In verità, fu proprio grazie al gioco delle dispute politico-diplomatico che il potenziale conflitto tra i blocchi non degenerò in uno scontro armato o in una rottura insanabile. A partire, va ricordato, dall’adesione degli Stati membri alla richiesta di disarmo multilaterale, di non proliferazione e di divieto di uso e di commercio di armi nucleari e termonucleari.
Dagli anni Novanta in poi, l’Organizzazione ha affidato sempre più le attività di polizia internazionale a coalizioni di eserciti composte dai paesi componenti le Nazioni Unite, consegnando agli Stati Uniti la guida dell’intervento militare, soprattutto in Medioriente. Non sempre, però, si sono ottenuti i risultati sperati. Per esempio in Ruanda nel 1994, quando il conflitto tra hutu e tutsi esplose violentemente. Anche la crisi scoppiata nella ex Iugoslavia, nel 1992, la espose a difficili e inconcludenti iniziative. L’unico fatto rilavante, in questo caso, fu la difesa, nel 1993, di sei città musulmane (con la missione UNPROFOR), assediate dai Serbo-Bosniaci. Nel suo insieme, in realtà, l’azione si rivelò inadeguata rispetto alla drammaticità del conflitto.
Negli ultimi anni l’impiego dei Caschi blu ha seguito l’andamento internazionale prevalente fronteggiando la minaccia del terrorismo internazionale (intervento in Afghanistan, 2001), o le violazioni dei diritti umani nel corso delle guerre civili (intervento in Libia, 2011).
Complessivamente, l’ONU nel mondo globalizzato (proprio quando v’è maggior bisogno di una guida sovranazionale autorevole) non sembra ancora aver assunto il ruolo di protagonista che le sarebbe proprio.
Uno dei motivi di questa lacuna è sicuramente il non aver sviluppato una visione autonoma della transizione planetaria in atto, riassumibile in sette punti: 1) le rivoluzioni arabe; 2) i movimenti d’indignazione popolare contro il potere finanziario; 3) il diminuito prestigio degli Stati nazionali (ovvero la sottomissione della politica all’economia); 4) il declino dell’egemonia Occidentale; 5) l’ascesa in Asia, in Medioriente e in America latina di potenze economiche che contendono agli Usa la leadership economica continentale; 6) lo sviluppo dei BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – (che rappresentano oltre il 42% della popolazione mondiale, il 25% della totale estensione della Terra, il 20% del PIL mondiale, e circa il 16% del commercio internazionale); 7) la cooperazione tra Cina e Russia e la sua influenza sulla vastissima regione Euroasiatica.
A tutto questo l’ONU ha risposto incorporando nelle sue risoluzioni (la 1373 del 2001 e la 1674 del 2005) la strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti trasformando il diritto internazionale in uno strumento di lotta agli “Stati canaglia”. Cioè, invece di lavorare alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, ha accetto l’interpretazione delle crisi globale come conseguenza dell’attacco di Al-Queda alla torri gemelle (11 settembre 2001), proclamando la dottrina della “guerra preventiva”.
Siamo caduti, così, in una condizione di conflitto armato permanente in cui non ci sono più nemici da combattere ma solo colpevoli verso i quali condurre una “guerra giusta” in difesa della civiltà Occidentale, nonostante la missione originaria delle Nazioni Unite sia l’autodeterminazione dei popoli, e, dunque, l’affermazione del multiculturalismo.