Il giorno in cui finì la Prima Guerra Mondiale: il racconto dello storico Jay Winter
Sappiamo tutti che la Prima Guerra Mondiale finì con il Trattato di Parigi, firmato il 28 giugno 1919. In questo libro Winter sposta il confine temporale in avanti: al 24 luglio 1923, il giorno in cui a Losanna la Turchia si siede al tavolo con i vincitori della Grande Guerra, per stabilire quali siano i propri confini. Per usare le parole di Jay Winter, autore per il Mulino di "Il giorno in cui finì la Grande Guerra": "Quel giorno, terminò il decennio della Grande Guerra, ma ciò che lo rimpiazzò fu un ordine internazionale estremamente instabile e caratterizzato dalla violenza". Per usare le parole di Marco Mondini, che ha firmato la postfazione: "Perché le cancellerie potessero proclamare l’avvento di un nuovo equilibrio, popolazioni inermi vennero trattate come marionette, private di voce, sradicate dalle loro case. E’ una lezione che andrebbe sempre ricordata quando si invoca la pace a ogni costo.
Un estratto dal volume
"La Grande Guerra non finì, come i manuali si ostinano a ripetere, l’11 novembre 1918 con l’armistizio sul fronte occidentale, né il 28 giugno 1919 con la firma del trattato di pace a Parigi. Al contrario, tra 1917 e 1918 la guerra mondiale si frammentò in una serie di guerre decentrate, che tra 1918 e 1923 devastarono gran parte dell’Europa orientale, centrale e meridionale. La natura di questo focolaio di conflitti era profondamente differente da quella che era stata sostanzialmente una guerra tra potenze imperiali combattuta tra 1914 e 1918 per determinare l’egemonia in Europa e nel mondo. La Gran Bretagna, la Francia e i loro alleati avevano vinto quella guerra. La Germania l’aveva persa, e con essa i suoi alleati: Austria-Ungheria, Bulgaria e impero ottomano.
Dopo il 1918 emerse invece un nuovo tipo di guerra. Quelli che possiamo definire, appunto, conflitti decentrati che coinvolgevano talora un potere di tipo statale, ma più spesso si riducevano a scontri su scala regionale, a volte generati da rivalità etniche, a volte da conflitti religiosi, a volte da lotte di classe, e in alcune aree da tutte queste cause simultaneamente. A marcare la differenza tra la prima fase della Grande Guerra e l’ondata di violenza del 1918-1923 fu proprio il frammentarsi delle guerre. Le colossali campagne condotte da potenze nazionali o imperiali si disgregarono in una serie di guerre civili e scontri di confine destinati a dividere popolazioni che tra 1914 e 1918 avevano combattuto inquadrate nelle grandi armate nazionali (o imperiali).
[…]. Nei quattro anni seguenti alla Pace di Parigi, infatti, morirono più persone nelle zone devastate da quei conflitti di quante ne fossero perite tra 1914 e 1918. Se calcoliamo il tributo richiesto da fame e malattie, entrambi fenomeni strettamente collegati allo stato di guerra se non generati da esso, ci accorgiamo che era molto più pericoloso vivere in tante parti del globo dopo il novembre 1918 rispetto a prima dell’armistizio: una constatazione che ci aiuta a capire come sia arrivato il tempo di disfarsi dell’obsoleta espressione «periodo interbellico», come se i due decenni tra il primo e il secondo conflitto mondiale fossero stati liberi da spargimento di sangue e terrore.
Naturalmente, il mutamento della natura e delle caratteristiche della guerra rese il processo di pacificazione non solo molto più difficile, ma decisamente più instabile. Un modo per capire il periodo dopo il 1918 consiste nel leggerlo come una serie di efficaci sforzi degli sconfitti della Grande Guerra per fare a pezzi i trattati di pace imposti loro dai vincitori. La prima volta che questo accadde fu il 24 luglio 1923. Non sarebbe stata l’ultima. La seconda caratteristica distintiva degli anni tra il 1918 e il 1924 è il sempre più radicale coinvolgimento dei civili nella violenza collettiva: definiamo questo processo civilianization. Questo termine è stato coniato per fotografare il passaggio dalle guerre dirette da comandi centralizzati contro eserciti nemici a conflitti, con o senza centri di comando formali, in cui il bersaglio primario è costituito da civili. […] L’ultima grande recrudescenza di violenza del decennio 1914- 1924 fu la guerra greco-turca del 1919-1922. Dopo la completa disfatta delle forze greche in Anatolia, tutti concordarono sul fatto che fosse arrivato il momento di ristabilire la pace. Porre termine alle ostilità fu lo scopo del Trattato di Losanna.
[…] A Losanna milioni di civili si trasformarono in ostaggi, scambiati per il raggiungimento della pace. Con l’eccezione di Costantinopoli (l’odierna Istanbul), dove ai «greci» fu concesso di rimanere, e della Tracia occidentale – dove poterono restare i musulmani –, chiunque altro nella neonata Repubblica turca e in Grecia fu costretto a «non mescolarsi», volente o nolente. Il risultato fu uno «scambio di popolazioni» di oltre un milione di cristiani e forse mezzo milione di musulmani. A queste persone, così come a coloro che già erano fuggiti prima del 1923, non fu concesso di tornare alle proprie case. Chi tentò di restare fu cacciato con la forza. Per compensare coloro che avevano perso ogni proprietà fu istituita una commissione mista, le cui lungaggini nel deliberare produssero una valanga di carte a fronte di ben scarse compensazioni. Nel 1923 questo accordo di pace nobilitò le espulsioni forzate rendendole di fatto norma di legge. All’epoca, vi fu chi vide in essa una misura essenziale per salvare vite umane. […]. Il punto che mi preme sottolineare è molto semplice. Ciò che colpisce soprattutto, quando si analizzano i termini dello scambio di popolazioni, è il linguaggio usato per descrivere la guerra e le sue vittime. A Smirne fu evidente a tutti che dei civili inermi stavano pagando il prezzo della sconfitta delle forze greche che avevano invaso la Turchia dopo l’armistizio del 1918. A Losanna il fatto che i civili dovessero farsi carico del peso principale della guerra divenne un principio del processo di pace.
In un certo senso, la conferenza di pace di Losanna racchiudeva in sé elementi antichi e moderni. Era una tradizionale assemblea convenzionale di Stati sovrani, vincitori e vinti, che tentavano di porre fine a uno stato di guerra. Nel contempo, però, emersero elementi inediti. Il trattato di Losanna instaurò una pace che fu per certi versi stabile, ma che per altro verso si rivelò talmente inefficiente da minare alle fondamenta proprio quell’ordine che avrebbe dovuto creare. Con l’eccezione della provincia di Hatay, assorbita senza spargimenti di sangue nel 1939, i confini dello Stato turco stabiliti nel 1923 sono gli stessi che possiamo vedere oggi, a un secolo di distanza. Questo fu il risultato positivo di Losanna.
Il processo di pacificazione presentò tuttavia due aspetti problematici che meritano la nostra attenzione. Il primo è elementare: Losanna fu la prima occasione (ma non l’ultima) in cui i termini della vittoria alleata del 1918 furono riscritti dagli sconfitti. Questo dato di fatto non era un mistero per nessuno. Nel 1922-1923 la delegazione turca rese evidente come chiunque fosse dotato di determinazione e di sufficiente forza sul piano politico e militare potesse stracciare le condizioni dettate dai vincitori del 1918, riscrivendole in termini radicalmente differenti. Ciò non passò inosservato: ci sarebbero voluti altri quindici anni per smantellare l’architettura della pace imposta dagli Alleati, ma il momento in cui questo processo di erosione dell’ordine europeo ebbe inizio fu la data della sottoscrizione del trattato di Losanna, il 24 luglio 1923.
Il secondo elemento inquietante nel trattato fu l’accordo sullo scambio di popolazioni. Una volta ratificati, questi spostamenti forzati che basavano la cittadinanza sull’appartenenza religiosa avrebbero perseguitato proprio coloro che all’epoca li accolsero con approvazione, accogliendo a braccia aperte la fine della Grande Guerra a oriente in quei giorni d’estate sulle sponde del lago di Ginevra.
[…] Quel 24 luglio 1923 fu il giorno in cui scoppiò la pace? Sì e no. La pace è una condizione temporanea, non un’entità permanente: è instabile. Un trattato di pace annuncia, da un punto di vista normativo, la fine delle ostilità, ma non la fine delle violenze o dei risentimenti. Quel giorno, terminò il decennio della Grande Guerra, ma ciò che lo rimpiazzò fu un ordine internazionale estremamente instabile e pur sempre caratterizzato dalla violenza. A Losanna fu disinnescata una serie di conflitti, aprendo però la strada a nuove ostilità. Marx aveva ragione: noi tutti creiamo la nostra storia, ma non nella maniera in cui crediamo di farlo.
[…] A Losanna tutti coloro che firmarono il trattato lo fecero a modo proprio, e nessuno colse la verità. Per alcuni storici Losanna rappresentò un successo; agli occhi del governo turco fu una vittoria. La mia lettura è più sfumata. Losanna pose fine a una guerra, ma il prezzo fu terribile. Nel film di Kurosawa Rashomon i personaggi sono ben consapevoli del fatto che in un dato giorno accade qualcosa di inquietante, qualcosa sulla quale è necessario riflettere. È proprio ciò che io penso degli eventi di Losanna ed è questo lo spirito che ho cercato di infondere nelle pagine del mio libro".
Jay Winter è professore emerito di Storia nell’Università di Yale. Tra i suoi libri segnaliamo: «Remembering Wars» (2006), «Dreams of Peace and Freedom» (2006), «War Beyond Words: Languages of Remembrance from the Great War to the Present» (2017). Il Mulino ha pubblicato «Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea» (nuova ed. 2014).
Edizione italiana a cura di Marco Mondini, che insegna History of conflicts e Storia contemporanea nell’università di Padova.