Il corpo delle donne è considerato ancora un campo di battaglia
Analizzare lo spazio che le donne hanno e hanno avuto all'interno della società dà bene l'idea di cosa intendiamo quando parliamo di patriarcato. Uno spazio reale, ma anche metaforico, lo spazio che può essere cittadino o del corpo, quello dell'Arte o della Storia. Ne parla Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università per Stranieri di Siena, nel libro "Lo spazio delle donne" – pubblicato da Einaudi e finalista al Premio Napoli 2022 – in cui si raccontano proprio questi spazi, affrontando la materia dai suoi vari punti di vista, rifacendosi alle teorie di Carla Lonzi, analizzando Virginia Woolf, prendendo esempi come quello di Franca Rame, parlando della violenza che le donne hanno subito e subiscono quotidianamente e raccontando come parlare di donne non debba per forza dover parlare di "eccezionalità miracolate ed eroine".
Qual è lo spazio delle donne a cui fa riferimento il titolo del suo ultimo libro?
Lo spazio a cui si faccio riferimento è contemporaneamente più cose, sia concrete, fisiche, storiche che simboliche e metaforiche. Per un verso è lo spazio reale, fisico che le donne occupano, a cui però corrisponde uno spazio che non viene riconosciuto, tant'è vero che ho usato l'immagine dell'elefante nella stanza per riferirmi al mancato riconoscimento della posizione effettiva che le donne hanno e hanno avuto sia nella società che nella storia. E così, dunque, allo spazio storico che le donne hanno o non hanno avuto o che non è stato nominato e ricordato si aggiunge anche quello prospettico che possiamo costruire, sia per ragionare retrospettivamente di una tradizione così sommersa – come facciamo a pensare tutto questo buio, tutto questo nero? – sia perché può essere uno spazio futuro progettuale. Il modo in cui io intendo lo spazio delle donne, infatti, non è uno spazio banalmente contrapposto a quello degli uomini, ma è uno spazio plurale, trasversale, intersezionale oltre che interstiziale. È una parola che effettivamente si prestava e si presta a tante possibilità di riflessione e di interrogativi.
E lo spazio di cui parla è anche quello del corpo, quello negato, che serve al Potere per perpetrarsi: vale per le donne, le minoranze…
Laddove c'è subalternità, il corpo delle identità subalterne è sempre un campo di battaglia. Penso anche alle opere di misericordia di Caravaggio, che è un autore a me caro e che ci parla continuamente di corpi, di persone diseredate, i corpi degli ultimi, quindi è chiaro che il corpo degli schiavi o delle schiave, delle identità sottomesse è sempre un corpo che non appartiene al soggetto, ma al padrone e quindi viene colonizzato, occupato, etichettato, violentato. È considerato un campo di battaglia, un trofeo e interno a logiche di forza, per questo è particolarmente interessante interrogarci in senso storico, visuale, anche politico, sulla condizione di questi corpi, le condizioni di trattamento di questi corpi o anche della rimozione dei corpi.
Nonostante le giornate contro la violenza e tutto il lavoro delle attiviste, facciamo ancora fatica ad affrontare questa tragedia come si deve e continua ad essere un problema, purtroppo, quotidiano. Come mai?
Anche stavolta lo spazio funziona come come chiave di riflessione perché troppo spesso si continua a credere che la violenza contro le donne sia un argomento che in fondo riguarda soltanto le donne, a livello proprio di pratiche discorsive e politiche. D'altronde anche sui giornali molto spesso i femminicidi li troviamo nelle pagine di cronaca, mentre invece ogni tanto mi piacerebbe leggere un articolo di fondo, un bell'editoriale contro il femminicidio nella pagina politica, perché lo stupro e la violenza contro le donne sono una questione che ci riguarda tutti: riguarda i diritti e la libertà tutti. Anche in questo caso evoca immediatamente un problema di rispetto e dignità dei corpi e contemporaneamente, però, anche di giustizia spaziale, perché non c'è bisogno di arrivare a uno stupro per poter parlare di quanto il corpo delle donne sia sottoposto a violenza, soprattutto dal momento in cui una donna non può prendere un mezzo per raggiungere il posto di periferia in cui abita dopo le otto di sera o muoversi in una metropolitana, ma perfino in ospedale, visto che insomma gli stupri avvengono anche lì.
Il tuo discorso riprende molto quello di Carla Lonzi, ovvero l'idea non tanto di inserire il femminile e la donna all'interno di un mondo patriarcale quanto di cambiare completamente quelli che sono i sistemi di valori, i canoni e le gerarchie che sono patriarcali, appunto. Sembra utopico, ma è un qualcosa che può essere materialmente costruito?
Io penso di sì, perché è veramente una questione non solo di parole, ma di sintassi, di disarticolazione dei nostri sguardi, per cui il fatto stesso che tuttora possa capitare – mi riferisco agli articoli di giornale perché, insomma, il modo in cui fotografano e ricostruiscono i fatti è fondamentale – che si usi ancora l'aggettivo "provocante" riferito alla bellezza è sbagliato. È un aggettivo che appartiene a un vocabolario del patriarcato, all'idea per cui se una donna è bella, se una persona è bella, allora è provocante. Ma cosa deve provocare? Siamo sempre dentro un'idea per cui quella che spesso è la vittima è una preda. Esiste solo nella misura in cui si può consegnare completamente allo sguardo dell'altro. Ecco, io credo che questa prospettiva possiamo decostruirla, disarticolarla e consegnarla alle persone più giovani, ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi e a qualsiasi altro tipo di identità sessuale.
C'è bisogno quindi di ripensare l'educazione sentimentale degli uomini. Come si può fare se spesso a insegnarla sono persone che vivono all'interno di una mentalità ancora patriarcale?
Io credo che lo si possa fare disarticolando: per esempio all'Università io lavoro con ragazzi di 19, 20, 21 anni e negli ultimi anni abbiamo lavorato anche con "Una stanza tutta per sé" di Virginia Woolf: mi è capitato più di una volta di ascoltare studenti che hanno pensato delle cose straordinarie a partire da questo saggio, proprio nella misura in cui hanno capito l'importanza di disarticolare le identità, riguardarle, riguardarsi e capire quanto siamo spesso fatti anche di stereotipi. E questa capacità di disarticolarsi e disarticolare non va a vantaggio soltanto delle donne, ma anche degli uomini o di qualsiasi altro tipo di identità, perché anche le mascolinità possono essere molteplici. È stato molto interessante lavorare sulla sindrome da stress post-traumatico dei soldati della prima guerra mondiale grazie a Mrs Dalloway, sempre di Woolf, e facevo notare a questi ragazzi quanto questa sindrome, all'epoca della prima guerra mondiale, ma anche in altre situazioni, fosse non è soltanto la reazione a uno shock e basta, ma anche una situazione – per quel che riguarda i ragazzi e i maschi – che parla di una difficoltà a disporre di un linguaggio delle emozioni per cui, proprio nella misura in cui non c'è questo linguaggio e non è considerato socialmente accettabile o accettato, il banco salta, il corpo salta, la testa impazzisce. Lo stress è anche questo, non solo quello che vedi, ma quello che non riesci a provare perché non è consentito da un luogo comune che assume che i maschi non possano piangere, non possano parlare di sofferenza
"Se rimani neutrale in una situazione di ingiustizia non significa che sei equidistante, ma che stai dalla parte degli oppressori" dici nel libro riprendendo Ruth Bader Ginsburg. Può esistere neutralità in una battaglia come questa?
No, dire che sono questioni e argomenti che non interessano non significa essere al di sopra o essere in disparte, ma significa di solito essere dalla parte del più più forte di chi compie e riproduce quella disparità.
La questione del merito la declini parlando anche della questione delle quote di genere. Tu non sei contro, anzi dici che chi è contro spesso non lotta per una reale parità.
Proprio oggi ho letto la notizia di un'orchestra americana composta da un numero superiore di donne perché hanno fatto il casting con un paravento e quindi hanno ascoltato soltanto la musica senza sapere chi fosse il candidato o la candidata a fare richiesta di ammissione. È interessante perché in qualche modo conferma il discorso che faccio nel libro, cioè che tutte le volte che parliamo di merito dobbiamo chiederci all'interno di quale spazio, di quale perimetro, stiamo parlando di merito. Se il perimetro simbolico del merito è quello per cui le donne non sono mai state previste a meno che non fossero portatrici di chissà quale stranezza, eccezionalità o di una variabile che di fatto conferma la norma è chiaro che noi non stiamo applicando un principio di uguaglianza, ma stiamo soltanto riproducendo una disparità. Poi c'è un'altra questione ancora anche più legata alla contemporaneità, che forse va anche oltre il libro.
Ovvero?
Parlo di questa retorica del merito che sentiamo usare nelle ultime settimane, soprattutto da quando c'è un ministero dell'Istruzione e del merito, che è davvero una retorica, nel senso che salta anche l'attenzione alla bravura effettiva: così si crea un bisogno proprio di escludere o includere che dal punto di vista formativo è la cosa più anti educativa che ci sia e anche più anacronistica in questi tempi in cui i meriti che davvero funzionano sono quelli collettivi, forme di intelligenza condivisa. Le cose anche più interessanti che stanno accadendo non sono situazioni in cui arriva un genio individualista che ha fatto fuori tutti gli altri o tutte le altre e ce la fa, ma sono lavori di squadra.