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“Il Cavallo di Troia era una nave”: la scoperta di un archeologo italiano

Il Cavallo di Troia non era un cavallo, ma una nave da guerra. Gli studi dell’archeologo Francesco Tiboni rivoluzionano il modo di leggere ed interpretare una delle leggende più famose del mondo occidentale.
A cura di Federica D'Alfonso
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Una riproduzione in legno del Cavallo di Troia
Una riproduzione in legno del Cavallo di Troia

Il Cavallo di Troia non era un cavallo di legno, bensì una nave da guerra. Ad affermarlo l'archeologo navale Francesco Tiboni, ricercatore dell'Università di Aix-en-Provence e Marsiglia, che ha da poco pubblicato i risultati delle sue ricerche sulla rivista "Archeologia Viva". Secondo Tiboni, la leggendaria macchina da guerra utilizzata dai greci per espugnare Troia non era un cavallo di legno, come l'immaginario comune ha sempre ritenuto, bensì un particolare tipo di nave fenicia con la polena a testa di cavallo chiamata "hippos".

"O chiusi in questo legno si tengono nascosti Achei, o questa macchina è fabbricata a danno delle nostre mura, per spiare le case e sorprendere dall’alto la città, o cela un’altra insidia: Troiani, non credete al cavallo. Di qualunque cosa si tratti, ho timore dei Danai anche se recano doni": è il monito di Laocoonte ai troiani riportato da Virgilio nell'Eneide, affinché non accettino il dono degli infidi nemici. Dopo dieci lunghi anni di assedio inconcludente i Greci, attuando un piano escogitato da Ulisse, abbandonano sulla spiaggia di fronte a Troia un enorme cavallo di legno costruito dall'abile Epeo con l'aiuto di Atena. Durante la notte i greci, nascosti nella pancia del cavallo, escono e conquistano finalmente la città di Troia. Un racconto divenuto leggenda che ha ispirato artisti, poeti e registi: ma che, secondo l'archeologo italiano, si fonderebbe su un clamoroso errore di traduzione.

"Se, infatti, esaminiamo i testi omerici, reintroducendo il significato originale di nave non solo non si modifica in alcun modo il significato della vicenda, ma l'inganno tende ad acquisire una dimensione meno surreale”, ha spiegato l'archeologo in anteprima ad Adnkronos.it. Secondo Tiboni infatti, è molto più verosimile che un'imbarcazione di grandi dimensioni possa celare al proprio interno dei soldati, e che questi possano uscire calandosi rapidamente dai portelli sullo scafo, che un cavallo di legno possa passare inosservato. La tesi dell'archeologo italiano è frutto di due anni di studi, ed è stata pubblicata sulla rivista specialistica "Archeologia Viva" dopo essere passata sotto il vaglio dei comitati di valutazione, e verrà illustrata in modo scientifico e dettagliato nell’edizione estiva di "Archaeologia maritima mediterranea. An International Journal of Nautical Archeology".

Giovanni Domenico Tipeolo, Processione del Cavallo di Troia, 1773
Giovanni Domenico Tipeolo, Processione del Cavallo di Troia, 1773

Ma al di là della verosimiglianza o meno del racconto, Tiboni preme sull'analisi filologica della parola "hippos", tradotta erroneamente alla lettera quando invece il suo significato sarebbe da ricondurre ad un particolare tipo di nave. L'archeologo in effetti, riapre una disputa di lunga data: il racconto non viene narrato nell'Iliade, ed è solo incidentalmente citato nell'Odissea. Viene invece ampiamente sviluppato nel II libro dell'Eneide di Virgilio: è Enea, principe ed esule troiano, a raccontare l'episodio alla regina Didone. Gli storici moderni avevano già avanzato l'ipotesi che il cavallo di Troia fosse in realtà un ariete da assedio a forma di cavallo, e che la sua descrizione sia stata trasformata nel mito attraverso i resoconti orali, poi ripresi da Virgilio nella sua opera. Lo storico greco Pausania scriveva nel suo libro "Periegesi della Grecia" che "chiunque non consideri il popolo troiano incredibilmente stupido sa che il cavallo era una macchina d'assedio".

"Dal punto di vista lessicale, appare evidente che l'apparizione del cavallo risulta legata a un errore di traduzione, un'imprecisione nella scelta del termine corrispondente che, modificando di fatto il contenuto della parola originaria, ha portato alla distorsione di un'intera vicenda", dice Tiboni. È possibile che, nel corso dei secoli, essendo caduto in disuso il termine navale, l'identificazione dell'hippos con uno scafo "non fosse più automatica", ha spiegato l'archeologo. "Se consideriamo l'iconografia, notiamo che tra le pochissime figurazioni del cavallo, le prime si datano al VII secolo a.C., periodo cui risalgono le opere post-omeriche prese a riferimento da Virgilio". Dunque, è più che possibile che l'equivoco millenario della traduzione dell'hippos omerico si possa collocare in questo momento, e che Virgilio, cui si deve la vera grande diffusione del tema nella cultura occidentale, abbia codificato tale passaggio utilizzando il termine latino "equus".

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