Il “Candide” di Ravenhill/Arcuri: un viaggio dal ‘700 alla crisi dell’Europa
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Siamo andati al Teatro Mercadante di Napoli per vedere “Candide”, una riscrittura ispirata all’originale di Voltaire firmata dal drammaturgo inglese Mark Ravenhill, uno dei più importanti autori contemporanei. La messinscena è del regista Fabrizio Arcuri, già direttore artistico dell’Accademia degli Artefatti e animatore del festival romano “Short Theatre”. Lo spettacolo è una produzione del Teatro di Roma, dove ha debuttato la scorsa settimana, ed è realizzato in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina.
Il testo di Ravenhill, scritto appena tre anni fa, è un’indagine sul nostro tempo che si serve dell’originale di Voltaire come canovaccio, uno schema, per interrogare il concetto stesso di Occidente e la sua crisi ideologica e politica. Il tutto con un raffinato e complesso gioco teatrale suggerito nel testo non da note o descrizioni di ambienti, ma dal linguaggio con cui i personaggi si esprimono, dai registri che via via utilizzano. Diviso in cinque atti “Candide” attraversa i secoli partendo dal ‘700, e quindi dal tempo dell’originale, per arrivare a un futuro indefinito dove le contraddizioni del presente (nostro) esplodono in una sorta di tragica farsa, spietata e implacabile, in cui le due storie che corrono parallele lungo i primi quattro atti si incontrano nel quinto. C’è da dire che questo testo è davvero molto ostico, pur nella sua sofisticata bellezza, e probabilmente la versione inglese risulta un tantino più asciutta di quella italiana. Non deve essere stata affatto un’impresa facile per il traduttore Pieraldo Girotto riuscire a dare fluidità ai dialoghi originali così come per gli attori in scena, tutti molto bravi, che sono anche costretti, nonostante siano ben undici, a interpretare più personaggi. Insomma un’impresa sia artistica che produttiva davvero ambiziosa. Ed è per questo che da osservatori bisogna esigere il massimo.
Parlando della messinscena di Arcuri la sua chiave, in accordo con un testo così ricco, è l’abbondanza di elementi, l’accumulo, la saturazione: un apparato scenografico tanto imponente quanto ridondante, tante luci dentro e fuori la scena e i costumi sontuosi e colorati. Ecco, se come hanno scritto anche altri commentatori e come lo stesso regista sottolinea, l’intenzione dello spettacolo è politica – aspetto che peraltro è centrale nel teatro di Arcuri e nei testi di Ravenhill -, forse una messinscena così fastosa finisce col distrarre troppo lo spettatore. Quest’ultimo se la deve vedere, infatti, con dei dialoghi intensi e a più voci in cui si mescolano sia i registri linguistici che quelli interpretativi. La prima ora e mezza, ad esempio, è tutta impostata su una recitazione volutamente enfatica e declamatoria che unita agli altri elementi in scena, alle riflessioni ficcanti e taglienti del testo, alle battute sagaci e fulminanti, alla lunga durata complessiva, crea non poca confusione e non trova una sua sintesi. Si fa molta fatica a stare dietro a tutto e il discorso "politico" sfuma, si disperde.
Inoltre, nella versione napoletana dello spettacolo, questa densità, questa concentrazione di segni risulta essere ancor più enfatizzata dalle ridotte dimensioni del palcoscenico rispetto a quello romano dove lo spettacolo è nato. Anche per quanto riguarda i costumi, firmati dallo stesso regista, forse si poteva calcare un po' meno la mano. A qualcosa si poteva e doveva rinunciare. Ecco, forse il problema di questo “Candide” non sta in questo o quell’aspetto, ma nel suo non voler rinunciare a niente. Ricapitolando: testo ricco, duro e complesso, un cast di undici attori più una musicista cantante in scena (la splendida e bravissima H.E.R.), scene e costumi di cui abbiamo già detto, una durata notevole… ci vuole davvero un fisico bestiale! In definitiva, "Candide" è uno di quegli spettacoli che promette di essere un capolavoro, ma poi non lo è e ci resti male. Peccato. Bravi, ma alla prossima.