Il 1 marzo moriva Dino Campana: il ‘Rimbaud’ italiano, fra bellezza e tormento
Il poeta Dino Campana moriva il 1º marzo del 1932 a Scandicci, lo ricordiamo oggi a 85 anni dalla sua morte. Trascorse la sua vita in una totale immersione nella scrittura e la prima cosa evidente della sua biografia è la totale fusione della poesia nell'esistenza. Dino Campana è il poeta dello sconfinamento, delle parole che si sciolgono nel flusso della descrittività. Leggerlo è come viaggiare, un viaggio dolce e veloce allo stesso tempo, dove il lettore finisce quasi per perdersi fra la struggente bellezza dei ‘prosimetri' con cui compose la sua opera più identificativa.
I Canti Orfici, bellezza e tormento di un poeta
Quando dalla libreria scegliamo Dino Campana, scegliamo l'evasione, la suggestione. Scegliamo di immergerci nella purezza del suo mondo poetico, quello dei Canti Orfici, con un titolo rivelatorio, che parla da sé, evocando la figura mitologica di Orfeo, il primo dei "poeti-musicisti". La seduttività del linguaggio è elevata, una poesia incontinente, che nel verso non ci sta, non a caso è una raccolta di componimenti letterari in prosimetro: solo all'interno del quale Campana riesce a dare spazio alla sua espressività, al suo sconfinare sinestetico. Il manoscritto andò perduto e fu ritrovato solamente nel 1971, secondo la ricostruzione dello stesso poeta: "seppi che il manoscritto era passato in mano di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi di riscriverlo a memoria…". La decisione di riscriverlo lo devastò, fra lo smarrimento delle bozze sparse e gli sforzi di memoria. Ma per Campana, come per ogni vero scrittore, staccarsi dai suoi componimenti era come perdere la vera parte di sé, che gli diede il tormento pur di poterla recuperare.
Il Rimbaud italiano, la voglia di fuggire e l'amore per Sibilla Aleramo
La lettura dei Canti Orfici è un avvolgimento di bellezza fonetica, una descrittività barocca e leggerissima, che viaggia senza freni, fra vette di elevazione e picchi di contrasti. Non a caso Campana è stato definito il nostro ‘poeta maledetto', il cui destino è stato paragonato a quello di Rimbaud, entrambi mossi dall'esigenza incondizionata di fuggire, di abbandonare la civiltà, che come una camicia di forza, calza estranea al proprio essere. Rimbaud lasciò la letteratura per fuggire in Africa, mentre Campana viaggiò sempre senza meta in preda ad una ‘follia' sempre più ingombrante. Ma per Rimbaud il viaggio fu scelta, per Campana solo caotica sopraffazione di eventi, quelli che scandirono una vita senza serenità anche nei suoi lati più sublimi, come l'amore per Sibilla Aleramo, una vicenda esistenziale da cui ne uscì sconfitto.
Il viaggio esperienza liberatoria di vita e di poesia
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un'isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai pi˘ del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell'equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l'inquieto mare notturno.
Sono questi alcuni dei languidi versi di "Viaggio a Montevideo", poesia all'interno de "I canti Orfici", versi fluenti di cui si ha la sensazione costante di respirarne l'atmosfera. La descrittività di Campana è quasi cinematografica, le immagini susseguono una dietro l'altra, fulminee, in un rapimento, fonetico e di significato, che non lascia il tempo di focalizzarsi: è una lettura che scorre come il flusso di un fiume che attorno a sé vede cambiare ambienti e paesaggi.
La stima di Eugenio Montale: fu l'unico a parlare della sua vita
Dino Campana è sembre stato percepito come un poeta inquieto, a tratti un po' scomodo, come se a volte riuscisse in un certo qual modo a scandalizzare, forse proprio perché spesso la follia bussò alle porte della sua vita, stemperandosi inevitabilmente nei suoi versi, in un'epoca in cui a malapena si parlava di inconscio e di psicanalisi. Ad avere la meglio era pur sempre la solita cultura borghese. Il primo a dargli merito fu Eugenio Montale, il più autorevole fra i suoi estimatori, che gli dedicò una struggente lirica, non curandosi di non citare la sua vita, come molti che, per motivi di ‘perbenismo', evitavano di parlare delle vicende biografiche di Campana. Mentre Eugenio Montale lo face e in mondo provocatorio, parlando a chiare lettere di un'esistenza estremamente tormentata che ebbe fine solo quando "riverso a terra cadde!".