I figli della mezzanotte: il grande romanzo di Salman Rushdie sullo schermo
Deepa Mehta è una regista sessantatreenne, per metà indiana e per metà canadese, che ottenne un momento di grande successo nel 2005 con il film Water, nominato agli Oscar, che faceva parte di una trilogia dedicata ai tre elementi naturali base di cui parla la cultura vedica (Fire 1996, Earth, 1999, Water, 2005).
Da qualche anno stava lavorando con Salman Rushdie alla sceneggiatura di un film dal titolo Midnight’s Children, trasposizione dell’omonimo romanzo di Rushdie che è certamente uno dei testi più importanti della letteratura post-coloniale, la letteratura scritta da autori provenienti da paesi colonizzati e, come nel caso di Rushdie, talvolta nella lingua dei paesi dominanti.
Il libro di Salman Rushdie è importantissimo, per ciò che narra: è l’epopea tragicomica di un membro della classe agiata indiana, Saleem Sinai, le cui vicende si intrecciano con i fatti storici dell’India, di cui lui stesso diviene allegoria. Pare che il nascente governo indiano avesse inviato una lettera di buon augurio a ciascuno dei bambini nati all’esatto scoccare della mezzanotte del 15 Agosto 1947, anno in cui l’Inghilterra cedette l’indipendenza alla nazione indiana.
Una delle cose che rende speciale questo romanzo, tuttavia, è il suo essere essenzialmente un racconto delle illusioni perdute. I figli della mezzanotte è un libro sull’eterno sfumare dei sogni e delle aspettative che il passaggio dall’infanzia alla età adulta porta con sé. Questo tema è fondamentale nella cultura romanzesca, ed è alla base della cultura moderna: tutta la modernità è infatti una vicenda di illusioni perdute, grandi speranze tradite dagli avvenimenti della vita. Questo perché la modernità, a differenza delle altre epoche, è un'era priva di riferimenti culturali fissi, è l’epoca proiettata in avanti per definizione. È difficile dunque gareggiare con un romanzo nel raccontare uno dei temi che più gli sono propri.
La storia de I figli della mezzanotte è la storia delle grandi speranze disattese e delle illusioni perdute di una generazione di indiani la cui sfavillante visione del futuro si trasfigura in un'imagery tipicamente indiana che mescola prosaicamente le suggestioni politeistiche che giungono dall’iconografia indù e la pioggia di suggestioni pop di uno dei primi paesi orientali globalizzati della storia del Novecento.
Trasfigurazione, dunque. E allegoria. Il romanzo inizia come una biografia di un normale ragazzino della borghesia privilegiata e, lentamente, i suoi sogni per il futuro si intrecciano inestricabilmente con la storia fantastica di bimbi prodigio, maghi e divinità mitiche, ma anche trovatelli e disperati decimati dalla povertà, che si elevano, lungo la lettura, a metafora di potenzialità inespresse, sogni infranti, meraviglie dimenticate come quelle di una nazione ripiombata nel caos e nel fallimento a causa delle guerre di religione prima, e poi, sotto Indira Gandhi, della sospensione della democrazia.
Il protagonista, sia nel libro che nel film, attraversa con fugacità da picaro le vicende storiche dell’India, intrecciando, per metafora, nel suo percorso esistenziale,almeno tre piani diversi: il piano che separa il poter essere dall’essere, il piano che separa il reale e il soprannaturale (il religioso) e il piano che separa il mondo delle azioni concrete, quelle che ci rendono ciò che siamo, dal mondo dell’immaginazione, dove siamo ciò che non saremo mai nella realtà.
In questo modo la storia de I figli della mezzanotte esprime veramente il ricatto storico cui sono sottoposti paesi come l’India, carichi del loro essere, eppure schiacciati dall’atroce dinamica degli eventi storici che, fino a poco tempo fa, li ha intrappolati in un degrado che nel romanzo appare quasi fatale.
La regista fa del suo meglio per ridurre sullo schermo il romanzo di Rushdie che è uno di quei classici libri costruiti su una miriade di sequenze narrative più piccole, che disperdono la trama in rivoli e che tuttavia risultano miracolosamente completi e forniscono di sé un immagine unitaria, quasi mitologica, non appena si è voltata l’ultima pagina. La complessità sullo schermo diventa compressione, che rende la storia affastellata e piena di salti temporali, seguendo la trama dai nuclei tematici principali e perdendo in gran parte, chiaramente, la natura brulicante di fatti della storia originale.
Ma ciò che purtroppo risulta la perdita più grande è appunto la carica allegorica del romanzo, la sua capacità di usare elementi provenienti dal fiabesco e dal fantastico per arricchire di spessore metaforico la vicenda. Tutta la simbologia, con la libertà con cui Rushdie l’aveva usata, di cui si caricavano gli elementi fantastici (i poteri magici dei figli della mezzanotte, su tutti) perde di spessore semplicemente perché cambia il modo con cui la storia viene raccontata.
Ad esempio, quello che nel romanzo risulta una rivelazione che giunge quasi a metà libro, nel film diventa la premessa di tutta la storia: ovvero lo scambio fra due bambini, uno ricco e privilegiato ed uno povero e isolato. Il rapporto fra i due bambini – nel libro metafora della arbitrarietà delle vicende umane, legata alla condizione di nascita cui si subordina la coscienza dell’uomo, fatalità che poi si estende alla coscienza dell’India intera – nel film risulta necessariamente semplificato e trattato in modo un po’ troppo lineare perché possa assumere una tale pregnanza. Non che un simbolismo, nel film, lo si eviti del tutto, intendiamoci. Al contrario, il problema, forse, è che è troppo esplicitato (ad esempio dal retorico discorso finale del protagonista), perdendo così la carica suggestiva della storia.
il valore di un adattamento non si misura in opposizione al libro di origine, tuttavia non ci pare che il film abbia in sé una grande autonomia, anche per l'affastellamento di eventi cui, necessariamente, sottopone lo spettatore. Rimane comunque un buon prodotto, che compie un grande miracolo di riduzione di una storia complessissima e seducente, cui molti potranno anche accostarsi per la prima volta.