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Rime scadenti e misoginia: perché il dissing tra Fedez e Tony Effe non ha vincitori ma solo sconfitti

Vale veramente la pena perdere minuti della propria vita appresso ai dissing di Fedez e Tony Effe che tirano in mezzo Chiara Ferragni e Taylor Mega? No, ma vi spieghiamo per bene perché.
A cura di Federico Pucci
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Fedez e Tony Effe
Fedez e Tony Effe

Quando a un giornalista musicale tocca parlare dei dissing tra rapper, questo povero manovale della classe intellettuale si sente moralmente in obbligo di fornire al lettore una storia della pratica musicale dalle origini a oggi, come se sulle spalle di ogni articolo reggesse la comprensione delle intricate convenzioni di una sottocultura cinquantennale. Ho sempre pensato che, se invece del termine inglese (da “disrespect”), usassimo la parola “polemica”, chiunque capirebbe quali sono le regole d’ingaggio e i confini artistici di questi eventi: come nelle risse televisive tra esponenti politici, due rapper che si scambiano dissing si scontrano con le parole; cercano di affermare la superiorità dell’uno sull’altro; idealmente fanno uso del proprio armamentario etico e retorico ma più spesso colpiscono basso e la buttano in caciara e sul personale. I dissing tra Tony Effe e Fedez a cui stiamo assistendo da un paio di giorni funzionano precisamente così, ed è per questo che – a meno che il tuo interesse principale non sia il gossip o le conversazioni online più in tendenza – puoi lasciar perdere e ascoltare altro. Se, invece, proprio ci tieni a farti del male, puoi continuare a leggere. E ora, l’obbligatorio paragrafo sulla storia dei dissing.

Il conflitto fa parte del DNA dell’hip-hop dalle origini. Le schermaglie tra crew, nei basement parties e nei club che ospitavano le fasi primordiali di questa cultura, si facevano a parole e gli MC ne erano i paladini, ciascuno a difendere la supremazia del proprio gruppo. Gli storici del rap fanno risalire alla battle del 1981 tra Kool Moe Dee e Busy Bee il primo conflitto nel quale a fare la differenza non fu soltanto l’entusiasmo del pubblico aizzato dall’entertainer ma la proprietà e l’arguzia del liricista: un punto di svolta, insomma, per lo stesso genere musicale che stava prendendo forma. Su un campo di battaglia si erano chiarite quali fossero le priorità: il miglior MC vince. Ecco perché ancora oggi i dissing fanno notizia: non è soltanto un litigio, è (cioè, dovrebbe essere) una prova di valore e di destrezza; è un duello senza pistole (nel migliore dei casi).

Ma con il tempo qualcosa è cambiato, e come dimostra anche l’attuale litigio nostrano, la priorità è diventata il pettegolezzo e lo scherno personale. Possiamo rintracciare l’inizio di questo nelle Roxanne Wars che nel 1985 diedero il via ai dissing incisi su traccia: forse la distanza aumentò la tensione, come in una Guerra Fredda del rap, ed è così che le battaglie si sono inferocite. Rapper di stirpe hanno investito le loro abilità nel dimostrare non solo di essere superiori artisticamente ai rivali, ma anche umanamente, scavando e rimestando nel torbido: appena pochi mesi fa abbiamo sentito Kendrick accusare Drake di pedofilia di fronte al mondo intero, e il canadese accusare il losangelino di violenza domestica (nel frattempo, Diddy era fuori dal Paese per sfuggire alla giustizia americana e non farsi processare per violenze sessuali, ma senza un dissing fa meno notizia).

I dissing hanno un problema di misoginia: quella che per anni è stata considerata la diss track definitiva, tanto brutale quanto geniale, una perla di veleno cesellata, è Hit ‘Em Up di 2Pac. E già nel suo secondo verso contiene l’insinuazione di aver fatto sesso con “la donna del nemico”. L’uso e abuso delle donne come trofei e terreno di battaglia, quindi, è tutt’altro che una brutta deriva attuale, una scandalosa deviazione dal valore dei guerrieri del passato. Certo, esistono modi per usare questo topos senza scadere nello squallore: dire a un avversario che la “sua donna” l’ha tradito proprio con la parte avversa significa una cosa precisa, cioè sottolinea che il bersaglio non può fidarsi di nessuno perché nessuno lo rispetta.

In questo senso, quindi, il coinvolgimento di Taylor Mega da parte di Fedez e il messaggio di Chiara Ferragni sulla traccia Chiara di Tony (per quanto Ferragni abbia poi pubblicato una sorta di abdicazione alla battaglia) sono in totale ossequio del codice del beef. Certo, ciascun ascoltatore può schierarsi da una parte o dall’altra anche solo per ragioni di simpatia, o può applicare il proprio giudizio morale a una valutazione personale sul fair play del duello. Se dobbiamo parlare di trattamento delle donne, finora L’infanzia difficile di un benestante di Fedez e Bufu Freestyle di Niky Savage sono più efficaci nell’usare il topos dell’infedeltà proprio per sottolineare la pochezza dell’avversario, usando proprio gli esempi delle sue relazioni per sanzionare la sua; viceversa, nelle sue 64 barre di verità Tony scade nella tipica pratica maschilista di elencare tutti gli uomini che la ragazza dell’avversario si è fatta prima di arrivare a lui, come se si trattasse di un vestito usato. Nessuno brilla per valori progressisti, diciamolo pure, specie se ci aggiungiamo i sottotesti omofobi di molti versi; e anche se arriverà chi li difenderà dicendo che “nel rap si fa così”, dobbiamo dire che la figura peggiore la fa Tony con il suo rigurgito nichilista di nomi di colleghi che si sono “passati” la “bitch” di Niky Savage, e per aver insinuato sospetti sulla sessualità di Fedez in modo chiaramente denigratorio.

Forse dovrebbe esistere una “convenzione di Ginevra” sulle diss track, perché finora nulla è stato sacro nelle diss track. Nemmeno “i bambini”: Fedez ha fatto notare al rivale che “i bambini non si toccano”, eppure una delle più epiche diss track recenti è quella del 2018 in cui Pusha T ha svelato al mondo dell’esistenza di un figlio segreto di Drake. Possono sembrare duri versi come “Hai fatto i figli solamente per postarli. Chissà che penseranno quando saranno grandi”, ma queste non sono offese contro i figli, bensì al valore del padre. Certo, Tony come tante volte in passato dimostra di non saper andare molto oltre il guscio esterno del liricismo rap. E no, non è una questione di chiusura delle rime, ma di convenienza e coerenza interna dei temi usati: ha senso rinfacciare a Fedez l’abuso di post social sui figli in una traccia che porta nel titolo e nel ritornello il nome dell’ex moglie che non può certo dirsi innocente da quest’accusa? Ha senso usare lo stesso claim (“Chiara dice che mi adora”) in una strofa come quella del Red Bull 64 Bars che si conclude con l’accusa a Fedez di essere viscido nonostante la sua beneficenza, quando Ferragni si è messa nei guai proprio per via di una beneficenza poco trasparente? I colpi sparati da Tony sono forti, e una parte del pubblico può anche ammirare l’impatto quando arrivano a bersaglio: ma il metaforico rinculo fa male anche al romano.

Nonostante l’infantilismo generalizzato, si può entrare almeno parzialmente nel merito artistico di questo beef tricipite. E per tricipite non intendo il muscolo, per quanto buona parte di questo litigio ruoti intorno agli incontri in una palestra: è lì che Fedez avrebbe chiesto a Tony di partecipare a una sua traccia, circostanza che – se vera – quest’ultimo ha decisamente ingigantito quando, parlando in un’intervista da Max Brigante con Gaia per promuovere il singolo Sesso e samba, ha confessato di aver rifiutato un featuring con Fedez. Se, invece, la richiesta di quest’ultimo fosse stata più insistente, come Tony ha lasciato intendere, l’equilibrio di potere di questa interazione sarebbe completamente diverso. Ma Tony dimentica una cosa che tradurremo adattando in italiano la frase gergale americana: “non porta le ricevute”, cioè non offre prove delle sue affermazioni.

Prendiamo l’accusa “Tutta la scena ti odia”, che Tony incastona nel ritornello. Bene, non fatichiamo a credere che sia vero: diciamo pure che le prove dell’antipatia verso Fedez da Fabri Fibra a Marracash e Guè non sono mancate in passato – lo stesso rozzanese vi fa allusione nella propria diss track (“Dev’essere frustrante”, frase trasformata in meme), perché l’autoconsapevolezza è un dono in un gioco così esagerato. Ma dove sono le ricevute di Tony? Perché non ci dà una dimostrazione di questo disprezzo per il rivale? Una diss track dovrebbe servire proprio a questo, a trascinare nel fango l’avversario, a chiarire perché uno dei litiganti è più in basso nella gerarchia rap rispetto all’altro – ammesso che esista una gerarchia rap in un mondo dove a comandare sono tre etichette major. Perché i colleghi lo tengono a debita distanza? Nei versi si può sviscerare tutto ciò, esponendo le mancanze altrui, ma Tony perde quest’occasione.

Le uniche “prove” che Tony porta sono di natura strettamente personale: un messaggio vocale di Ferragni che lascerebbe intendere che Fedez ha cercato di comprare degli streaming; l’insinuazione di conoscere le abitudini narcotiche di questo e quindi poterne smascherare l’ipocrisia. Di nuovo, in entrambi i casi Tony manca l’occasione di affondare il colpo, andando a esporre il trasformismo morale ma anche le sorti artistiche altalenanti dell’avversario. Non che ci si possa aspettare competenza lirica di primo livello dall’ex Dark Polo Gang. L’unico elemento convincente del suo brano è la combinazione del suo beat con la metrica del ritornello: forse la cosa più vicina a un “banger” (un pezzo esaltante, un successone cantabile) nella carriera strettamente rap di Tony Effe da solista. Insomma, Tony lascia parlare la traccia e pretende che la sua parola valga più di ogni prova: è l’appello al carisma che i rapper fanno in momenti come questo, chiedendo implicitamente ai propri seguaci di stare con lui fino all’ultimo. Ma funzionerà presso un pubblico che ama i retroscena ma non presta fedeltà a nessuno, come dimostrano le fluttuazioni delle carriere di questo Grande Fratello Vip che chiamiamo rap italiano? Può darsi, se quel che la gente vorrà più di tutto sarà il gossip, per poterlo condividere sui propri profili.

E questo è un problema che non si può schivare: nel 2024 i beef avvengono tanto sulle tracce quanto nelle Storie di Instagram. E il pubblico ne è ben consapevole, e tratta queste sfide non come un confronto tra due modi di fare rap (di periferia o di centro; sgrammaticato o citando Petrarca; senza rime o con troppe rime baciate) ma come una cornucopia di pettegolezzi da scoprire: chi ha messo like a quale diss track? Cosa dice la ex di Damante? Vittoria Ceretti starà spiegando a Leonardo DiCaprio chi sono Fedez e Tony? Tutte domande legittime per il puro intrattenimento social, un circo nel quale i due protagonisti sono in realtà due schiavi di un gioco disumanizzante più grande di loro. Ma se cerchi anche solo qualcosa in più, qui non la troverai.

La competenza metrica è scarsa da tutte le parti: le rime baciate di Fedez, quelle aperte di Tony; l’eccesso di sillabe (“il naso rosso che ha perso nel bagno”) e gli inciampi di flow (“ti ingaggerò per il mio compleanno”) del primo, gli accenti innaturali del secondo (“se metto il tuo nome” rappato come fosse “se mettò il tuo nome”). E, musicalmente parlando, solo il beat di Chiara ha qualcosina da dare. Per il resto, si può passare oltre. Nemmeno stavolta le insicurezze dell’uomo bianco etero tatuato hanno prodotto il capolavoro, sarà per la prossima.

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