I 5 monologhi “cult” per affrontare un provino teatrale
Come titolò il grande Eduardo: “Gli esami non finiscono mai”. Lo sanno bene gli attori, specialmente quelli più giovani, che con cadenza regolare si trovano di fronte al famigerato scoglio: il provino. E so dolori! Ma quali sono, ci siamo chiesti in un pomeriggio di brainstorming tipo sceneggiatori di “Boris”, i monologhi “cult” più gettonati per presentarsi al cospetto di registi e responsabili casting?
Abbiamo quindi provato a stilare una classifica che, intendiamoci, non è frutto di un’indagine accurata e scientificamente rilevante, ma di un “sentire” che nel tempo abbiamo raccolto dal nostro personale osservatorio. Invitiamo gli attori, e tutti gli appassionati in generale, a commentare le nostre scelte arricchendole di nuovi spunti, smontandole del tutto o, bontà loro, confermandone la validità.
Monologo cult n. 1 (ovvero #echimammazza)
“Essere o non essere” da “Amleto” ex equo “Per Ecuba” da “Amleto”. A farla da padrone è sicuramente Shakespeare. Il Bardo, infatti, si piazza di diritto al primo posto (ma vedrete anche dopo) con ben due monologhi cult, tratti entrambi da “Amleto”: due pezzi bellissimi, anzi, strepitosi… forse però un tantino scontati?
Monologo cult n. 2 (ovvero #echimammazzabis!)
"Che luce apre l'ombra, da quel balcone?” da “Romeo e Giulietta”. Anche qui si finisce sempre per cascare su Shakespeare, magari pensando di differenziarsi da chi propone “Amleto”. Di certo “Romeo e Giulietta” è uno di quei testi che non si dimentica – vale anche per “Amleto”, ma ci vuole una maggiore inclinazione – per la sua universalità che mette d’accordo l’attore, il critico ma anche la portinaia. Forse è per questo che vi si ricorre quando ci si gioca il tutto per tutto.
Monologo cult n. 3 (ovvero #motifacciovedeio!)
“Monologo di Trigorin” da “Il Gabbiano” (fine secondo atto). Questa è la scelta preferita da coloro che segretamente coltivano uno spirito kamikaze (molto diffuso tra gli attori). Senza dilungarsi, la differenza che passa tra un capolavoro “qualunque” e Cechov, è che il primo è un capolavoro e basta, l’altro invece è Cechov, punto. Vale la stessa raccomandazione che per Beckett: a meno che uno non sia convinto al 200%, non fatelo! Questo vale anche per i registi, altrimenti poi tocca poi al povero spettatore fare il kamikaze.
Monologo cult n. 4 (ovvero #nuntetemo)
“Monologo di Julian” da “Porcile” di Pier Paolo Pasolini, ex equo con “Monologo di Jimmy” da “Ricorda con rabbia” di John Osbourne. Al quarto posto abbiamo pensato a due monologhi diversi, è vero, ma accomunati dal fatto di essere scelti da coloro che si sentono, per così dire, “a disagio” con la tradizione, e optano per una scelta più cool. Da un lato, c’è Pasolini, molto di moda; dall’altro, John Osbourne che invece suggerisce l’appartenenza al clan dei filo-anglosassoni: scrittura asciutta, in questo caso specifico, “arrabbiata”, contestatrice…
Monologo cult n. 5 (ovvero #nediquanedila)
Luigi Pirandello, “Monologo sulla pazzia” da “Enrico IV” o “Monologo di Romeo” da “Non si sa come”. Infine, nella nostra top 5 non potevamo non includere il drammaturgo italiano per eccellenza: Luigi Pirandello. Abbiamo segnalato due monologhi arcinoti solo a titolo di esempio, ma la lista potrebbe essere molto più lunga. Ci sembra, in generale, che Pirandello sia percepito oggi o come un “classico”, anche un po’ stantio, o come un drammaturgo prettamente “psicologo”. Manca forse il Pirandello innovatore, quello che spingeva il teatro oltre le proprie possibilità, che letteralmente “osava” la scena… peccato.