Holly Jackson torna con Una brava ragazza è una ragazza morta: il primo capitolo in anteprima
Dopo il successo di "Come uccidono le brave ragazze" e di "Brave ragazze cattivo sangue", che in Italia hanno venduto quasi 200mila copie, Holly Jackson torna in libreria con il capitolo finale della sua trilogia bestseller, "Una brava ragazza è una ragazza morta" (Rizzoli). Sono passati pochi mesi da quando Pip Fitz-Amobi ha risolto il suo ultimo caso, che ancora le toglie il sonno, ed ecco che si ritrova costretta a indagare di nuovo. Uno stalker le manda continuamente messaggi di velata minaccia, ma ancora una volta la polizia non dà peso alle sue segnalazioni e sceglie di non intervenire. Più che mai Pip sente di non poter contare sulla loro protezione ma è assolutamente determinata a trovare il suo personale nemico. Indagando come ha imparato a fare, non ci mette molto a scoprire delle analogie tra il suo stalker e un serial killer locale responsabile di ben cinque omicidi alcuni anni prima. Stavolta è la sua vita a essere in pericolo, e per salvarsi Pip dovrà lottare come non ha mai fatto prima, scegliendo di percorrere una strada che non avrebbe mai creduto possibile… Fanpage.it vi fa leggere in anteprima esclusiva il primo capitolo del libro.
Ecco il primo capitolo di Una brava ragazza è una ragazza morta
Uno sguardo morto. È così che si dice, no? Senza vita, vitreo, vuoto. Lo sguardo morto era ormai un compagno costante, la seguiva sempre, mai più lontano di un battito di ciglia. Le si nascondeva nel fondo del cervello e la scortava nei sogni. Lo sguardo morto di lui, nell’istante esatto in cui era passato da vivo a non più vivo. Pip lo vedeva nelle occhiate più rapide e nelle ombre più buie, a volte anche nello specchio, sul suo stesso viso.
E lo stava vedendo anche ora, che la trapassava da parte a parte. Lo sguardo morto di un piccione morto riverso sul vialetto di casa. Occhi vitrei e senza vita, a parte per il riflesso di lei che si muoveva, che si inginocchiava e allungava una mano. Non per toccarlo, solo per arrivargli abbastanza vicino.
«Pronta, cetriolino?» chiese suo padre dietro di lei. Pip trasalì quando lui chiuse la porta di casa con uno schiocco sonoro, che celava nella sua eco il rumore di una pistola. L’altro costante compagno di Pip.
«S-sì» disse, raddrizzando se stessa e la propria voce. Respira, respira e basta. «Guarda.» Indicò anche se non ce n’era bisogno. «Un piccione morto.»
Lui si chinò a osservare, la pelle scura formò delle rughe attorno agli occhi socchiusi e il completo immacolato in tre pezzi si raggrinzì alle ginocchia. E poi il mutamento d’espressione, una che lei conosceva fin troppo bene: stava per dire qualcosa di sciocco e ridicolo, tipo…
«Arrosto di piccione per cena?»
Ecco, come previsto. Ormai una sua frase ogni due era una battuta, come se in quei giorni si stesse impegnando ancora di più per strapparle un sorriso. Pip cedette e gliene fece uno.
«Solo se di contorno c’è una ratt… atouille» scherzò lei, staccando finalmente lo sguardo da quello fisso e vuoto dell’uccello, e mettendosi lo zaino in spalla.
«Ah!» Papà le diede una pacca sulla schiena, facendo un sorriso raggiante. «La mia macabra figlia.» Un altro mutamento d’espressione non appena si rese conto di cosa aveva detto e di tutti gli ulteriori significati che si agitavano dietro quelle quattro semplici parole. Pip non poteva sfuggire alla morte, nemmeno in quel luminoso mattino d’agosto, in un momento di sincero abbandono con suo padre. Pareva che ormai fosse questo tutto ciò per cui viveva.
Papà si scrollò di dosso l’imbarazzo, su di lui sempre passeggero, e accennò con il capo alla macchina. «Forza, non puoi fare tardi a questo incontro.»
«Già» rispose Pip, aprendo la portiera e mettendosi a sedere, senza sapere cos’altro dire, con la mente rimasta bloccata lì, insieme al piccione, mentre si allontanavano.
La raggiunse solo quando si fermarono nel parcheggio della stazione di Little Kilton. Era affollata, e il sole si rifletteva sui contorni netti delle auto dei pendolari.
Papà sospirò. «Ah, quello stronzetto con la Porsche mi ha rubato di nuovo il posto.» “Stronzetto”: un altro termine che Pip rimpiangeva di avergli insegnato.
Gli unici spazi liberi erano all’estremità opposta, accanto alla rete di cinta, che le telecamere non riuscivano a coprire. Il vecchio punto di spaccio di Howie Bowers. Soldi in una tasca, piccole buste di carta nell’altra. E, prima che Pip potesse trattenersi, il rumore della cintura di sicurezza che si sganciava si tramutò nel tamburellio dei passi di Stanley Forbes sull’asfalto alle sue spalle. Ora era notte, Howie non si trovava più in prigione ma lì, sotto il bagliore aranciato, ombre scure abbassate sugli occhi. Stanley lo raggiunge, per barattare con del denaro la propria vita, il proprio segreto. E, quando si volta verso Pip, ha lo sguardo morto, sei fori di proiettile gli si aprono dentro, inondando la camicia e l’asfalto di sangue, che poi chissà come è sulle mani di lei. Ce l’ha dappertutto, le impregna la pelle e…
«Vieni, cetriolino?» Papà le stava tenendo aperta la portiera.
«Arrivo» replicò lei, asciugandosi le mani sui suoi pantaloni più eleganti.
Il treno per London Marylebone era pienissimo: si ritrovarono in piedi, spalla contro spalla con gli altri passeggeri, goffi sorrisi a bocca chiusa a mo’ di scusa ogni volta che capitava di urtarsi. C’erano troppe mani sul sostegno di metallo, perciò per tenersi salda Pip si aggrappò al braccio di suo padre. Se solo fosse stato così semplice.
Sul treno vide per due volte Charlie Green. La prima nella nuca di un uomo, prima che questi si spostasse per leggere meglio “Metro”. La seconda in un signore che aspettava al binario, una pistola tra le mani. Ma quando salì sulla loro carrozza il suo viso si riaggiustò e perse ogni somiglianza con Charlie, e la pistola era soltanto un ombrello.
Erano passati mesi e la polizia ancora non lo aveva rintracciato. Sua moglie, Flora, si era costituita in una stazione di polizia di Hastings otto settimane prima: per qualche ragione si erano separati durante la fuga. Non sapeva dove fosse il marito, ma online circolava la voce che fosse riuscito ad arrivare in Francia. Pip lo cercava comunque, non perché desiderasse che lo prendessero, ma perché aveva bisogno che lo trovassero. E in quella differenza stava tutto, era il motivo per cui le cose non sarebbero tornate mai più alla normalità.
Papà incrociò il suo sguardo. «Sei agitata per l’incontro?» le chiese, sovrastando lo stridio delle ruote del treno che rallentava per fermarsi a Marylebone. «Andrà bene. Basta che tu dia retta a Roger, ok? È un avvocato eccellente, sa di che cosa parla.»
Roger Turner era il legale dell’azienda di suo padre, a quanto pareva “il migliore” per i casi di diffamazione. Lo raggiunsero pochi minuti dopo: li aspettava fuori dal centro congressi in mattoni rossi, dove era stata prenotata la sala.
«Bentrovata, Pip» disse, tendendole la mano. Lei controllò rapida che non ci fosse del sangue sulla propria prima di stringergliela. «Com’è andato il weekend, Victor?»
«Bene, grazie, Roger. E per pranzo oggi ho gli avanzi, perciò anche il lunedì andrà benissimo.»
«Meglio entrare, allora, se sei pronta» disse Roger a Pip, controllando l’orologio mentre nell’altra mano stringeva una valigetta splendente.
Pip annuì. Sentiva di nuovo le mani bagnate, ma era solo sudore. Solo sudore.
«Andrà tutto bene, tesoro» le disse papà, aggiustandole il colletto.
«Sì, sono un esperto in mediazioni» sorrise Roger, ravviandosi i capelli grigi. «Non devi preoccuparti.»
«Chiamami quando hai finito.» Papà si piegò per stamparle un bacio in testa. «Ci vediamo a casa stasera. Roger, noi invece più tardi in ufficio.»
«Sì, ci vediamo, Victor. Dopo di te, Pip.»
Erano nella sala riunioni 4E, al piano più alto. Pip chiese di fare le scale perché, se il cuore le martellava forte per la fatica fisica, almeno non l’avrebbe fatto per altri motivi. Era così che razionalizzava la cosa con se stessa, la ragione per cui andava a correre ogni volta che sentiva una stretta al petto. Correre finché non le doleva in modo diverso.
Arrivarono in cima, il vecchio Roger che ansimava svariati gradini dietro di lei. Un uomo in un completo elegante era in piedi nel corridoio fuori dalla 4E, e sorrise quando li vide.
«Ah, tu devi essere Pippa Fitz-Amobi» disse. Un’altra mano tesa, un altro rapido controllo che non ci fosse del sangue. «E lei il suo legale, Roger Turner. Io sono Hassan Bashir e oggi sarò il vostro mediatore indipendente.»
Sorrise di nuovo, spingendosi indietro gli occhiali sul naso sottile. Pareva gentile, e talmente impaziente che quasi saltellava. Pip detestava dovergli rovinare la giornata, cosa che senza dubbio sarebbe successa.
«Piacere di conoscerla» disse, schiarendosi la gola.
«Piacere mio.» Batté le mani, sorprendendola. «Allora, l’altra parte è già dentro, pronta a procedere. A meno che prima non abbiate delle domande» lanciò uno sguardo a Roger, «credo che forse dovremmo cominciare.»
«Sì. Benissimo.» Roger si mise davanti a Pip per assumere il controllo della situazione, mentre Hassan indietreggiava per tener loro aperta la porta della 4E. Dentro c’era silenzio. Roger entrò, con un cenno di ringraziamento in direzione di Hassan. Poi fu il turno di Pip. Fece un respiro profondo, aprendo le spalle, dopodiché espirò a denti stretti.
Pronta.
Entrò nella stanza e il volto di lui fu la prima cosa che vide. Seduto al lato opposto del lungo tavolo, gli zigomi affilati che puntavano verso la bocca, i suoi arruffati capelli biondi, ravviati all’indietro. Alzò lo sguardo e incrociò il suo, e negli occhi gli brillò un’ombra scura e compiaciuta.
Max Hastings.
traduzione di Paolo Maria Bonora
© 2021 Holly Jackson
© 2023 Rizzoli