Gli ampi margini di Gianni Montieri: “Se la poesia funziona, chiunque ci troverà dentro un po’ di sé”
Gli ampi margini messi in versi da Gianni Montieri sono quelli in cui disegna le strade di Napoli, sono quelli in cui si espande il sentimento per il padre, sono i movimenti di Maradona mentre stoppa una palla e guardando negli occhi il portiere avversario fa gol. Sono gli ampi margini entro cui si muove la poesia, quelli che il poeta napoletano si concede per rompere le regole, perché il verso poetico talvolta ha bisogno anche di questo per realizzarsi al meglio. Ampi margini è il titolo dell'ultima raccolta di Montieri, pubblicata, come la precedente, "Le cose imperfette", da LiberAria, in cui il poeta napoletano, di casa a Venezia, racconta con un ritmo a tratti irrefrenabile (un esempio su tutti, la "a" che fugge in un verso come "si fanno fragili, friabili, si piegano) i ritorni, il passato – con cui si cerca di far pace -, che evoca nei momenti di gioia, di tristezza, muovendosi tra Napoli, Milano, Venezia, Parigi, Damasco, cercando di cristallizzare in un attimo la contemporaneità degli eventi (Non pensare che fosse indifferenza/la nostra piuttosto un modo di vivere/ le cose come si vivono:/tutte insieme, una per volta. / La sparatoria dietro l'angolo / la partita di calcetto i compiti da fare / poi uscire la sera: il bar, la storia di tutti / tutti tornavano a casa per cena).
La raccolta di poesie prende il nome da un verso che dice "Ampi margini, confini". Quando scrivi ti muovi meglio negli ampi margini o quando hai dei limiti?
Io credo che siano entrambe le cose: il fatto di avere molto margine credo che sia da ricondurre almeno per me al campo dell'immaginario, nel senso che scrivi delle cose che hai pensato, su cui hai ragionato, però quelle cose vanno sempre messe in un modo tale da far entrare l'immaginario di chi leggerà, quindi in quel senso il margine deve essere molto ampio, il famoso spazio bianco deve essere il più bianco possibile, così che il lettore lo attraversi con cose sue. Se funziona la poesia, chi la leggerà riconoscerà qualcosa di suo, citando Dalla che presentando "Cara" diceva: "Adesso provate a immaginare quello che vi pare, perché io ho già immaginato quando l'ho scritta".
Per quanto riguarda il confine?
La regola la devi conoscere per decidere se seguirla o disattenderla: ci sono molte poesie in cui per me la metrica è importante, quindi seguo il metro, ma non lo vedo mentre scrivo, lo faccio dopo, anche se di solito viene abbastanza in automatico. Col tempo, però, ho imparato che se una parola che per me funziona di più mi fa uscire di una sillaba non me ne frega niente perché conta la resa, quindi in quel caso la poesia secondo me c'è.
Quindi quando scrivi "Si fanno fragili, friabili, si piegano" con quella "a" che fugge o quando costruisci versi come "Mi risparmio la paura, aspetto la seconda risposta, la carezza inattesa, l'accordo, l'apertura" ti lasci portare? Come lavori al verso?
Quei pezzi che citi hanno proprio questa caratteristica del suono che incalza. Sul cambio delle parole e dei versi impiego tantissimo tempo. In questo libro, per esempio, le prime poesie sono tutte molto recenti e sono state scritte nel giro di tre quattro giorni, tranne quelle su Maradona che sono state scritte nel giorno dell'anniversario della sua morte. Le scrivo rapidamente però ho bisogno di un sacco di tempo per tornarci, a quel punto cambio spesso uno o due versi o li tolgo proprio.
Prima citavi Maradona. Come mai proprio quell'Inter-Napoli dell'85?
Era la mia prima trasferta, ma c'è una storia strana, nell'immaginario si fissano delle cose: avevo 14 anni, ero con mio cugino più grande, i miei si convinsero a farmi andare, partimmo da Napoli, seduti per terra, di notte, allo stadio c'era mio zio, vedemmo questa partita con quasi più napoletani che interisti. Poi nell'immaginario c'era questa intervista fatta a Walter Zenga dopo la partita, parlando di questo gol di Maradona che stoppa la palla di petto e sembrava veramente che stesse là per due secoli e Zenga alla fine disse che quello che lo aveva più colpito era che avesse continuato a guardarlo fisso negli occhi mentre faceva tutto, quindi questo momento che si dilatava, nella mia mente era simile all'eternità.
A dimostrazione che si può far poesia su tutto, anche su un gol.
Io credo che si possa e debba scrivere di tutto, quello che conta è il modo. Io cerco sempre di mettere insieme tante cose, perché la mia ossessione è che le cose accadono tutte contemporaneamente, anche i movimenti di felicità e di tristezza: se stamattina c'è un barcone di migranti che affonda e mi fa dispiacere e incazzare non vuol dire che se alle 16 mi chiedi di andare a vedere un film nuovo appena uscito io non venga. Questo fa di me una persona peggiore? Nel raccontare una guerra, per dire, forse è più interessante raccontare di una signora a duemila chilometri che fa la spesa nello stesso momento in cui da un'altra parte cade una bomba. A cosa pensa quella signora? Qual è la relazione? Eppure una relazione c'è.
Uno dei grandi protagonisti di questa raccolta è tuo padre, qual è la difficoltà che trovi nello scrivere degli affetti?
È complicato, però secondo me dipende anche dai momenti. Quelle poesie che ho intitolato "Con mio padre" e non "Su mio padre" – perché per me sono un modo per continuare a parlare con lui -, sono tutte state scritte dopo la sua morte, avvenuta un paio di anni fa, tranne due. Quando le ho scritte pensavo che non avrei mai avuto il coraggio di leggerle in pubblico, in realtà è successo il contrario. Sono poesie che servono a parlare con un amico che per trent'anni hai perso di vista, con una persona cara che è morta, per mantenere il contatto.
Un altro affetto è Napoli, ti è più facile scriverle nel caos di Napoli o quando la guardi da lontano?
Il punto d'osservazione cambia ma non solo con la distanza fisica, cambia anche con la distanza degli anni passati. Le poesie recenti, che sono su Napoli città, si collegano a quel ritrovato affetto e a quella distanza che improvvisamente si accorcia, è proprio un ritorno: rivedere dei posti con gli occhi diversi e fare anche un po' il punto su quello che sei diventato e pensare che tutto sommato non è andata così male. La partenza era quella dei testi di "(Sud) in caso di morte" in cui c'era una certa arrabbiatura dovuta al pensiero che essere nati in provincia di Napoli negli anni '70, quindi essere adolescenti a metà degli anni '80, ti costringeva a sognare un po' di meno, come se il campo del sogno fosse un po' ristretto, perché c'era troppa realtà. Sapevi già che il 50% dei sogni che facevi non si sarebbero realizzati, quindi non erano già più sogni e questo mi faceva molto arrabbiare.
Ora va meglio?
Adesso non mi fa arrabbiare più perché ho capito che quello è stato il motivo che più di tutti mi ha spinto a fare quello che ho fatto, come andarmene a Milano. Se non ci fossi andato probabilmente non avrei mai scritto e mai scritto in questo modo. Avevo bisogno del silenzio e torno a una poesia su Milano e la neve perché quella necessità di un certo tipo di solitudine ed straniamento – la famosa immagine di Milano, città in cui nessuno ti parla -, quel fatto che i milanesi "ti lasciano stare", soddisfa un tuo bisogno e da quel punto di vista mi è servito tanto, anche a farmi innamorare di nuovo dei luoghi dove sono nato. Per questo motivo questo libro lo chiamo anche Libro dei ritorni, su come si ritorna e lo si fa anche non muovendosi dal divano.
Quando hai cominciato a pensarti poeta?
A me è sempre piaciuto scrivere e soprattutto leggere. Ho sempre letto tanto, la mia fortuna è stata quella di avere in casa un sacco di libri e i primi due libri che ho letto erano vicini. Mio padre dava un ordine alfabetico ma non lo distingueva per categoria e quindi Montale e Melville erano molto vicini, così ho letto per primi Moby Dick e le poesie di Montale, appunto. Scrivevo delle cose, ma mai seriamente, già prima di andarmene a Milano avevo cominciato a scrivere qualcosa, ma non capivo cosa fosse. Quando mi sono trasferito facevo questo attraversamento della città con i libri dei poeti milanesi sottobraccio, erano quelli il mio Tuttocittà: andavo a vedere Viale Argonne dove c'era la tipa che aveva lasciato Elio Pagliarani, Via Ripamonti, le case della Vetra di Giovanni Raboni, così imparavo la città e lì è come se mi fossi improvvisamente reso conto di avere questa necessità di scrivere e così ho cominciato. Poi, beh, considerarmi poeta è difficile. È difficile considerarsi qualcosa, alla fine per me è importante che quello che faccio venga letto e riconosciuto come un lavoro che ha dietro molta serietà e qualche buona intuizione, che venga fatto come si deve: poi poeta, scrittore… non importa.
Come è cambiata la poesia con l'avvento dei social?
È cambiata in positivo per alcune cose, tipo la diffusione, la capacità di raggiungere più persone. Il web è un campo aperto, alla fine, quindi ancora adesso quello che ci metti passa, però devi sapercelo mettere: una poesia di Montale postata sui social per 50 persone magari non vuol dire niente, ma può essere che due non la conoscessero e partendo da lì vanno a cercarsi quel libro, questo per me funziona. Già non funziona più se uno vede una poesia di Montale, fa copia e incolla, la mette da un'altra parte ma non sa da quale libro venga. Quello che non funziona è quella che chiamo poesia da social, ci sono persone che scrivono dei testi molto brevi per Instagram e Twitter e purtroppo per chi non sa quella roba passa per poesia ma in realtà è un'altra cosa, è un pensiero, magari riuscito, qualcuno di quei pensieri magari può diventare poesia, ma non lo sono ancora. I social hanno cambiato sia in bene che in male questo mondo anche se ho l'impressione che tendiamo sempre più verso il male.