Giuseppe Genna: “L’omicidio di Yara Gambirasio ha segnato un cambiamento epocale per l’Italia”

Lo scrittore Giuseppe Genna racconta a Fanpage il suo libro su Yara Gambirasio, una storia che è stata spartiacque per la Storia d’Italia.
A cura di Francesco Raiola
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Giuseppe Genna (ph Fanpage)
Giuseppe Genna (ph Fanpage)

"Non c'è bisogno di letteratura, la letteratura è ovunque" fa dire Giuseppe Genna al narratore del suo ultimo romanzo "Yara. Il true crime" (Bompiani), che riporta il caso di Yara Gambirasio, quello che, dopo Alfredino rampi, spiega lo scrittore, ha rappresentato un passaggio fondamentale della Storia d'Italia. Il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, Yara esce di casa per fare un servizio e non tornerà mai più: nel frattempo si scatena la più grande caccia all'uomo che l'Europa avesse mai visto, con una spesa economica enorme, un utilizzo della tecnologia come non era mai avvenuto prima e anche una raccolta dati personali che rappresenta un problema che non è mai stato affrontato. Che fine ha fatto Yara? È stata rapita? E chi sarebbe il colpevole? Ci vogliono anni per arrivare a una storia nella storia, quella di Massimo Giuseppe Bossetti, colpevole del suo omicidio e a sua volta protagonista di una storia familiare che meriterebbe un libro a parte. Genna una frasi brevi, paratattica, per dare una certa dinamica alla narrazione, ma al contempo non teme di sforare nel barocco, si ispira alla tragedia greca e costruisce un narratore omodiegetico – il narratore, cioè, è parte in causa della narrazione pur non essendone il protagonista -, non onnisciente e fluido, che di volta in volta assume un ruolo diverso. Abbiamo chiesto a Genna di raccontarci quetsa storia che, a un certo punto, lo ha fatto vergognare.

Hai attraversato le vite di Hitler, Breivik, Alfredino Rampi, tra gli altri, raccontando il male e il Paese: ome nasce questo libro su Yara?

Io penso che ci sono moltissime letterature possibili, quella che interessa a me, in particolare, è un tipo di letteratura che chiamerei assoluta, non perché in sé è assoluta, ma perché ha l'assoluto come oggetto di indagine e di ricerca. Il male è uno degli assoluti che mi interessano e quindi il percorso che tu hai disegnato, come vedi, si snoda attraverso fatti, crimini, singolarità impossibili da superare come quella di Hitler. Con Yara mi sono trovato in strettissimo rapporto all'indagine iniziale che avevo fatto con Alfredino (Rampi, ndr), nel senso che io ritenevo per tesi letteraria e poetica, ma anche politica che quei tre giorni di dramma di Alfredino nel buco, componessero un passaggio di dispositivo epocale da un'Italia a un'altra, infatti cambiava il premier, arrivava il primo premier laico della storia della Repubblica italiana (Giovanni Spadolini, ndr), fu rapito Patrizio Peci, fugge Licio Gelli e si inaugurava una nuova Italia, un'Italia che dopo sarebbe grezzamente stata soprannominata berlusconiana, che però in realtà era l'oscenità di uno spettacolo, di un medium che intride di sé la storia di un Paese.

Con Yara cosa succede, invece?

Con Yara trovo che la stessa cosa avviene a un livello differente e ulteriore, nel senso che lei è la vittima del passaggio al digitale a banda larga: quasi tutta l'inchiesta passa attraverso dati digitali, esami di celle telefoniche, tentativi di vedere immagini dalle telecamere a circuito chiuso, sistemi di geolocalizzazione, intercettazioni, microspie ovunque. La stessa risoluzione del caso, che è basata sul reperimento di 54 reperti di DNA, di codice genetico, passa attraverso dei microscopi della elettroforesi, cioè una scienza quasi invasiva che permea tutto il caso che dovrebbe condurre a una certezza definitiva. Questa certezza definitiva viene raggiunta attraverso tre gradi di giudizio, sappiamo che il colpevole dell'omicidio al terzo grado di giudizio, in Cassazione, è Massimo Giuseppe Bossetti, ma non è detto che il Paese non si attenda un quarto grado, un quinto grado, un sesto grado di processo. Questo perché? Perché la scienza non ha mantenuto la sua promessa, perché un indizio, il DNA, è diventato una prova. Io credo che si rinnovi la tragedia di Alfredino sotto altre spoglie, ovviamente, e con altri drammi: qui siamo di fronte a una tragedia infinita rispetto alla quale uno scrittore non può che alzare le braccia e sperare di riuscire a fornire un piccolo risarcimento poetico a quello che è successo.

Alfredino portò sul buco il Presidente della Repubblica, ci furono giorni di diretta, una folla di persone sul luogo, un bambino che prima era vivo e poi non più. Cosa ci ha affascinato e spaventato del caso di Yara da renderlo sintomatico?

Ci sono delle similarità tra i due casi, tra quello di Alfredino e quello di Yara: c'è il presidente della Repubblica Sandro Pertini che si china su un buco e chiede a un bambino che è intrappolato lì dentro: "Sei vivo?" ed è una scena che di per sé è al di là del letterario e cinematografico, qua accade lo stesso. Ci sono due interventi del presidente Giorgio Napolitano, manca il buco, anzi mancherebbe il buco perché, invece, il buco c'è, perché noi Yara non la vediamo. Il buco è ovunque: il buco è dentro di noi, il buco è nello schermo, il buco è nella realtà, si sa che Yara Gambirasio il 26 novembre 2010, intorno alle 18.42, apre la maniglia del portale che conduce al blocco di palestra dove lei ha assistito a degli allenamenti. Da quel momento noi non ne sapremo mai più niente, non la vedremo mai più. Non la vediamo nelle videocamere di sorveglianza, gli stessi resti non li vedremo, nonostante innocentisti cosiddetti bossettiani pubblichino online le foto del cadavere della piccola, però noi non vedremo mai nulla. Yara diventa una modalità dell'invisibile che strenua la nazione in una ricerca affannosa, durata esattamente tre mesi e che inanella eventi e particolari letterari uno dietro l'altro.

Un esempio?

I suoi resti vengono ritrovati per caso da un aeromodellista che, sul campo in cui giacciono, tra alti sterpi, sbaglia a impostare il proprio aeroplanino e quindi è costretto a farlo atterrare. Lo fa atterrare tra gli sterpi, e lì vede ciò che pensa siano un mucchio di stracci, poi capisce che è un corpo, pensa sia un ragazzo, chiama le autorità e dice: "È morto un ragazzo. Ho trovato un ragazzo morto", gli dicono di stare lì, lui sta lì. C'è un signore pelato da lontano, ai limiti di quel campo, che lo guarda minacciosamente. Lui si rende conto che intorno non c'è più il corpo di quel ragazzo, l'ha perduto, ha paura di passare per matto (l'uomo, nel chiamare la Polizia, si era mosso dal luogo del ritrovamento, ndr). Ora, ho raccontato un minimo particolare per dire la natura non cinematografica ma profondamente letteraria, profondamente tragica, cioè di combinazioni che portano al disvelamento delle verità e dell'orrore della verità, per cui ritengo che il caso Yara Gambirasio sia al momento insuperabile.

Infatti nel libro scrivi: "Non c'è bisogno di letteratura, la letteratura è ovunque". E in questo caso ci sono, come matriosche, storie nelle storie, come quella dello stesso Bossetti che è di per sé quasi assurda, con lui che scopre di non essere figlio di suo padre quando viene arrestato e interrogato. È uno dei fattori che forse ha incantato – ma il termine potrebbe essere impreciso – l'opinione pubblica, no?

Io invece penso che questo participio passato sia correttissimo: l'Italia è stata orrendamente incantata da questo caso e quando tu fai il nome di Bossetti, fai un nome che soppianta quello della vittima. Come se oggi, nei giorni terribili che stiamo vivendo a causa di quest'ultimo femminicidio a cui abbiamo dovuto assistere impotenti e credo più rabbiosi che mai e di prima, il caso Giulia Cecchetti diventasse il caso Filippo Turetta, cioè, come se persino il nome le fosse portato via. Prima cercano tutti Yara, poi si passa una fase del caso che riguarda Ignoto 1, questa etichetta misteriosa da Cluedo, da Sherlock Holmes. Dopo di che, quando Ignoto 1 viene identificato in Massimo Giuseppe Bossetti diventa il processo Bossetti, il caso Bossetti.

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Quanto contano le famiglie, in questa storia?

È una storia in cui le famiglie sono cruciali, centrali, devastate, ma qualunque famiglia è devastata nel momento in cui avviene un omicidio, non c'è salvezza possibile e che ci sia redenzione e perdono è veramente tanto difficile, ci vuole una umanità profonda per arrivare a un perdono altrettanto profondo. Possiamo certamente dire che sono famiglie molto diverse perché quella di Bossetti non è altro che un puzzle che viene composto nell'arco di tre anni e mezzo da parte di inquirenti che mettono in piedi l'investigazione più clamorosa e complessa della storia del Vecchio Continente: in Europa non c'è un'indagine che sia costata così tanto e che abbia visto un dispiego di forze e di tecnologie, di dinamiche e di persone di questa magnitudo.

Come si arriva a Bossetti?

Si arriva prima a capire chi è un parente di Ignoto 1, si arriverà poi a capire che i cugini di questo parente di Ignoto 1 forse sono i figli di Ignoto 1, che però sarebbe morto e siccome è veramente morto è il padre di Ignoto 1. Ma una volta stabilito chi è il padre di Ignoto 1 bisognerà stabilire chi è la madre, così da avere l'identità precisa di Ignoto 1, perché Ignoto 1 è figlio naturale ma non riconosciuto e quindi molto probabilmente ha un segreto che porta in sé, che è segreto anche a lui stesso. Quando viene individuata la madre di Massimo Giuseppe Bossetti, noi avremmo assistito alla ricomposizione di una genealogia che non credo che abbia pari nel mondo. Va tenuto presente, a proposito di questo caso, che il prelievo di materiale genetico con i tamponi viene effettuato su 23000 abitanti del distretto bergamasco, è una caccia all'uomo genetica che non ha precedenti nella storia mondiale.

Tutto questo DNA, successivamente è servito a qualcosa? Uso un paradosso: compiere un crimine in quell'area è praticamente impossibile, ormai.

Metti in luce uno dei possibili problemi che possono nascere da una repertazione così larga e vasta di DNA, nel senso che c'è una violazione eventuale della privacy devastante, che ti dice una cosa precisa: se tu metti insieme gli algoritmi che stanno per arrivare e un intero patrimonio genetico di un'intera popolazione, hai la possibilità di una vasta forma di controllo, anzitutto perché il DNA è passato da indizio a prova, quindi, poiché tu porti addosso il tuo DNA, non sei altro che un insieme di molecole di DNA, quindi di prove possibili di tua colpevolezza. Quello che hai chiesto rappresenta precisamente un passaggio d'epoca tra una società e un'altra. Nella seconda delle società, le possibilità di controllo biometrico sono molto maggiori e aprono dei problemi di giurisprudenza e di politica abnormi, di cui non è che si stia discutendo in maniera precisa. Tra l'altro, va considerato che questa nuova stagione politica fa sì che se realmente dovessi scommettere su un referendum italiano circa l'archivio totale dei DNA italiani, penso che ci sarebbe una maggioranza schiacciante di italiani che lo desidererebbe, con la motivazione unica: "Se non ho fatto nulla non ho nulla da temere". Questa è una tipica modalità con cui la vita politica attuale dopo il 2020 sta procedendo.

Hai mai parlato con i protagonisti di questa vicenda?

No, perché so che c'è una discrezione totale da parte dei genitori di Yara, né ho voluto disturbare il silenzio di quelle che ritenfo due vittime centrali, non collaterali, di questo caso, perché l'oscenità mediatica che si è scatenata nelle loro vite credo veramente che non abbia pari nella storia, forse solo a Cogne. È stato un momento talmente difficoltoso, durato per tre mesi in maniera intensissima e non ha smesso finora che francamente non mi sentivo di andare a disturbarli e mi sono vergognato dall'inizio alla fine, nella scrittura di questo libro, proprio perché era come andare a disturbarli, tornare a ripetere il nome della figlia in maniera oscena, mentre non era questa la cosa che pensavo e desideravo che venisse fuori. Io penso che Yara sia un fatto privato, terribile per i genitori, ma che sia anche un fatto cruciale per la storia d'Italia.

E con Bossetti?

Con Bossetti ho provato a vedere se fosse possibile in qualche modo avvicinarlo in carcere, ma non avevo proprio i mezzi. Va anche tenuto presente che io non sono un giornalista, né faccio il lavoro del giornalista nel libro, io faccio il lavoro dello scrittore, per cui, essendomi attenuto molto scrupolosamente ai dati, ai fatti, alle fonti, alle sentenze e agli atti che sono riuscito a consultare il mio intento resta letterario. Il mio fine non è quello di scoprire verità alternative o smentire le conclusioni delle sentenze dei tre gradi di processo, che è quello che purtroppo invece interessa alla generalità italiana quando si affaccia su casi come questi.

È un libro che prosegue con frasi breve, prediligi le paratattiche, ha quel ritmo là, però, allo stesso tempo, ha note barocche, c'è la voglia comunque di un orpello, me ne parli?

È un'osservazione molto corretta che non mi aspettavo, prendo veramente pochissimo tempo per cercare di risponderti: dov'è che vedi questi due stili, uno secco e l'altro orpellato insieme nello stesso testo? Lo vedi nella tragedia antica, là dove c'è il dialogo a più personaggi a una battuta, a versi, a metrica e ci sono parti invece, monologhi, in cui l'ipotesi e le dipendenti e gli orpelli, come dici tu, sono evidenti. Questo perché? Perché ho cercato la struttura tragica classica e facendolo mi sono connesso esplicitamente a un testo che fa la stessa cosa. È un libro non italiano, è di un grandissimo narratore contemporaneo americano che si chiama James Ellroy, autore di L.A. Confidential e di altre decine di libri: James Ellroy è figlio di una forse prostituta, che fu uccisa quando lui aveva una decina d'anni, fu assassinata. Lui rimase orfano di madre, fu cresciuto in maniera sconsiderata dal padre, ebbe un'infanzia tragica, arrivato alla maturità e al successo cambia di colpo il genere e scrive questo libro "I miei luoghi oscuri" che è la sua storia, quella dell'assassinio della madre e dell'inchiesta che a distanza di decenni lancia per riuscire a trovare il colpevole. Per farlo usa orpellamenti continui e, come è tipico suo, usa una paratassi radicale, addirittura c'è un testo in cui le frasi sono una parola, un punto, l'altra parola, un punto, l'altra parola, un punto. Però devo anche dire che ero interessato solo fino a un certo punto dallo stile, perché la materia, pur non essendo io un giornalista, era talmente urgentemente, dolorosa e sofferta che la lingua ne risentiva. Cioè la lingua va in secondo piano di fronte a un dolore come quello che è provato da Maura Panarese, la mamma di Yara Gambirasio.

Un'altra cosa che mi interessa è il narratore, che è interno, omodiegetico, non essendo il protagonista, non è onnisciente e tu lo rendi fluido, talvolta sembra giornalista, altre volte appartenente alle forze dell'ordine. Che libertà volevi prenderti?

Se devo spingermi a valutazioni di ordine letterario, non narcisistico, credo che quella sia la vera invenzione del libro, dal punto di vista letterario, cioè quella voce che è onnipresente ma non onnisciente, divina ma impotente, che appartiene a tutti gli ordini professioni e sociali, è povero e ricco, è vero, perché si capisce che c'è stato lì, su quel campo, nel fango, vede tutto, ma non può essere però ubiquo come Padre Pio, eppure è ubiquo come Padre Pio, lo si trova contemporaneamente in due scene che avvengono nello stesso momento, il cui statuto di verità è quello che gli dicono delle fonti. Le fonti sono sempre molto precise perché queste fonti vengono da ciò che si sa effettivamente che io raccolgo dai giornali nel momento in cui faccio la ricerca, però a volte sono imprecise, perché la precisione è imprecisa, per esempio, c'è un'imprecisione talmente clamorosa dentro il caso, cioè sbagliano a tradurre la comunicazione di un operaio marocchino e lo mettono in galera. Sono precisi eh!, perché fanno tradurre le frasi da sei traduttori diversi e sei traduttori diversi restituiscono l'errore. Allora, questo signore che è nel giusto, ma non è nel giusto perché non sa nulla di giustizia, che è impotente perché troppo potente, è ovunque, addirittura nelle aule di tribunale, chi è? Siamo tutti noi? Non è neanche detto che lui sia lo spettatore tipo italiano. Denuncia continuamente l'oscenità del pubblico italiano che si affaccia sul caso Yara Gambirasio, la denuncia, ne è parte, ma ne è colpevole? È lui il colpevole? L'indagine è la sua? In pratica, quello che voglio dire è che tirare un punto di domanda per tutto un libro, facendo percepire che quel punto di domanda ti sta dando via via una risposta dietro l'altra, è difficoltoso. Questa è stata la difficoltà letteraria maggiore che ho incontrato.

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