“Giacomo Leopardi morì di colera durante l’epidemia del 1837”: la nuova ipotesi degli storici
Una tesi fino ad oggi considerata "fantasiosa" dagli storici potrebbe diventare quella "prevalente" nella spiegazione del mistero relativo alla morte di Giacomo Leopardi. Avvenuta, come tutte le fonti dicono, il 14 giugno 1837, a Napoli, dove il Sommo dimorava da quattro anni in compagnia dell'amico Antonio Ranieri. O forse, ed è questa la novità, morì a Castellammare di Stabia, di ritorno dalle terme, dove l'autore della Ginestra sarebbe andato per sottoporsi alla cura delle acque nelle terme in seguito a disturbi gastrointestinali che lo affliggevano da tempo. Ma c'è di più: in quel periodo Leopardi sarebbe stato afflitto da colera, epidemia che quell'anno aveva ucciso 28mila persone soltanto a Napoli, su una popolazione di 351mila abitanti.
A sostenere l'ipotesi, come riportato qualche giorno da da Repubblica, lo studioso Angelo Acampora, che si occupa di storia del Grand Tour e di viaggiatori stranieri in penisola sorrentina da oltre trent'anni. Secondo questa ricerca Leopardi morì a Castellammare, in carrozza, forse di ritorno da una delle visite alle terme. Per evitare venisse sepolto in una fossa comune, in quanto ammalato di colera, l'amico Ranieri lo riportò a Napoli, nella casa di vico Pero 2, quartiere Stella, dove fu dichiarata la morte. Cosa ha ritrovato Acampora? Il testo di una lettera del 28 maggio 1846 scritta dal padre gesuita Francesco Scarpa al suo confratello padre Carlo Maria Curci. Scarpa spiegava di aver conosciuto Leopardi nel 1836, durante le confessioni nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli e di esserne diventato amico:
(…) Proseguì ( il Leopardi) a confessarsi per quattro o cinque mesi e anche io andai a ritrovarlo e confessarlo varie volte all'Ospedale degli Incurabili, ove dimorò circa un mese in una stanza a pagamento, per fare una cura. Poscia partì per Castellammare a prendere le acque minerali, mostrando gran dispiacere nel dividersi da me, ed ivi finì i suoi giorni col colera, né io potei andarlo a vedere colà perché partito da Napoli per Benevento. (…) E questo è quanto ho potuto rammentarmi del Leopardi per appagare i suoi desideri e quelle delle persone amanti dei letterati.
Quest'ipotesi resta tuttavia in controtendenza a quanto dichiarato sempre dall'amico Antonio Ranieri, compreso il mistero sulle spoglie di Leopardi mai rinvenute. Il nobile napoletano, infatti, fece di tutto per negare che la morte di Leopardi fosse dovuta al colera, ma andasse invece attribuita a idropisia polmonare probabilmente dovuta alla deformazione della colonna vertebrale. Nella biografia di Leopardi, infatti, Ranieri scrisse:
E il mercoledì, quattordici di giugno, alle ore cinque dopo il mezzodì, mentre una carrozza l'attendeva, per ricondurlo (ultima e disperata prova) al suo casino, ed egli divisava future gite e future veglie campestri, le acque, che già da gran tempo tenevano le vie del cuore, abbondarono micidialmente nel sacco che lo ravvolge, ed oppressa la vita alla sua prima origine, quel grande uomo rendette sorridendo il nobilissimo spirito fra le braccia di un suo amico che lo amò e lo pianse senza fine.
Tuttavia la lettera del gesuita ritrovata, incrociata con diversi dati biografici e altra documentazione, spinge Acampora a sostenere che proprio per l'aggravarsi della malattia è attendibile la testimonianza di Scarpa sulla presenza del poeta a Castellammare, dove stava provando a trovare sollievo dai suoi malanni e a sfuggire al colera. Come proverebbe il fatto che il suo corpo non è stato mai rinvenuto e che in quella che Ranieri aveva indicato come sua tomba nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta nel 1900 vennero ritrovati resti ossei non compatibili con quelli del Recanatese e che quindi, morto di colera, il corpo sia finito nelle fosse comuni delle Fontanelle.