Francesco Rosi, l’anima dell’Italia passa per Napoli
Se scorriamo la filmografia di Francesco Rosi ritroviamo la ricostruzione di un’Italia sotterranea seppure presente alla luce del sole. A cominciare da quell’opera prima che ci conduce per mano a Porta Capuana lì dove la Napoli dell’illegalità reale si mescola con la Napoli della legge apparente. Dietro il mondo caotico della metropoli ne esiste un altro, meno noto, che, tuttavia, è salito agli onori della cronaca con la morte di Pascalone ‘e Nola (Pasquale Simonetti) e della successiva vendetta della giovane moglie Pupetta Maresca: l’intermediazione agraria quale struttura portante di un’economia criminale a sfondo mafioso.
Rosi è il primo a svelare l’esistenza di due manifestazioni criminali all’interno dell’unico cotesto camorristico: da un lato il contrabbando, connotato da bande urbane, in stile gangsteristico, specializzate nella vendita di prodotti per il mercato del vizio, delinquenti violenti ma non sempre organici alla camorra; dall’altro i mediatori di campagna, dello sterminato e ricchissimo agro campano, capibastone di un sodalizio mafioso che sovrintende alla formazione del prezzo dei prodotti agricoli e ne controlla la raccolta e la vendita, tenendo sotto scacco i piccoli proprietari terrieri con la minaccia di espellerli dal mercato.
In città i delinquenti vivono di espedienti, rischiando la propria vita con azioni spericolate; in provincia i camorristi sono affiliati ad un’organizzazione con un capo riconosciuto che, grazie all’omertà dei proprietari, gestisce il principale settore economico della regione: l’agricoltura. Rosi dimostra come nella modernizzazione italiana, con uno sguardo trasversale caratterizzate l’intera filmografia, vi sia una quota illegale/criminale che è parte integrante dell’economica nazionale e dei meccanismi di promozione sociale. La camorra, come un organismo vivo e adattivo, per sfruttare le occasioni di benessere del Miracolo economico modifica la sua struttura mettendo da parte il limite individuale: l’organizzazione viene prima delle persone e deve seguire la razionalizzazione del mercato per non perdere il controllo dei proprietari terrieri, i quali, grazie all’aumento della produttività dei terreni e al moltiplicarsi delle opportunità commerciali, cominciano a rendersi conto delle possibilità offerte dalla concorrenza che rischia di mettere in crisi le tradizionali logiche di intermediazione. Rosi coglie questa “crisi di crescita” e la racconta non come un fenomeno di costume, o folkloristico, ma come un’alleanza di interessi che non ha niente a che vedere con la vulgata dell’”Onorata società”.
Alleanza di interessi che si manifesta anche ne “Le mani sulla città”. Dopo una lunga panoramica sulla metropoli napoletana in piena espansione, la cinepresa inquadra, sulla sommità di una collina ancora verde, un gruppo di persone che discute animatamente. Sono i rappresentanti di un comitato d’affari – composto da costruttori, politici e speculatori – che hanno intenzione di sfruttare quei terreni agricoli per realizzare un quartiere residenziale. «Questa è zona agricola – dice il protagonista Eduardo Nottola, interpretato dall’attore Rod Steiger – e quanto la puoi pagare oggi 300, 500, 1000 lire al metro quadrato, ma domani questa terra, questo stesso metro quadrato ne può valere 60-70.000 e pure di più. Tutto dipende da noi, il 5000% di profitto». Il costruttore si sbraccia, mostrando il profilo dei palazzi, per far comprendere ai suoi amici che «quello è l’oro oggi! E chi te lo dà il commercio, l’industria? L’avvenire industriale del Mezzogiorno! Si, investili i tuoi soldi in una fabbrica: sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia. Ti fanno venire l’infarto con queste cose. E invece niente affanni e niente preoccupazioni, tutto guadagno e nessun rischio. Noi dobbiamo fare solo in modo che il comune porti qua le strade, le fogne, l’acqua, il gas, la luce e il telefono».
Come è possibile che il comune sia disposto ad assecondare le richieste di uno speculatore? È presto detto: Nottola, oltre ad essere un costruttore, è consigliere comunale della destra monarchica. Già allora i conflitti d’interesse sono l’origine della degenerazione affaristica della politica. Napoli è la cartina di tornasole di un’l’Italia, siamo nel 1963, che si trasforma: più brutta non solo architettonicamente ma anche moralmente. Il potere politico ha scambiato l’etica con l'opportunismo e la corruzione. Gli elettori sono blanditi con promesse e prebende, divenendo soggetti attivi di un sistema che li rende schiavi. Il libero corso dell’attività speculativa unisce da nord a sud il Paese. In ogni città c’è un Nottola che ha accumulato un colossale patrimonio finanziario e immobiliare trasformando i terreni agricoli in foreste di cemento, devastando il centro storico e sostituendo antichi caseggiati con ignobili palazzi. Le classi disagiate devono fare spazio agli edifici funzionali e moderni dei nuovi ricchi accettando di vivere in case popolari costruite all’estremo margine dei confini municipali, in quartieri dove non arrivano nemmeno i trasporti pubblici.
Rosi, a mio avviso, è stato per il cinema ciò che Sciascia è stato per la letteratura, creatori di una narrazione del contesto in cui eventi e personaggi delineano una storia altra del paese sul quale è calata la maschera dei volti enigmatici di Giuliano, Mattei, Luciano; tre uomini, tre misteri, tre vicende che sembrano potare tutte verso la stessa pista (alla mafia) dove il dominio pubblico è solo una falsa rappresentazione della realtà. Un’Italia di “Cadaveri eccellenti” a cui fanno da contraltare gli “Uomini contro” della Prima guerra mondiale mandati al massacro da commendanti imbelli che condividono, in linea di continuità storica, la stessa malattia morale della insipiente classe dirigente repubblicana pronta a conciliare il proprio favore con quello delle organizzazioni criminali e a mentire spudoratamente pur di raggiungere i suoi sordidi e interessati scopi, ammaliando gli elettori con facile demagogia.
Uno Stato, quello inquadrato da Rosi, privo di fascino che non offre nessuna sicurezza economica ai suoi cittadini e disposto a farsi beffare dal primo arrivato profumato di nuovo. Insomma il suo cinema è il rispecchiamento di una questione morale ma sopita che trova sfogo e collocazione nei fotogrammi di una nazione perennemente in bilico tra modernità industriale e tradizioni oscurantiste. L'Italia di Rosi soffre di labirintite, barcolla, sorretta a malapena, per scopi sfacciatamente opportunistici, da politici e uomini d'affari la cui immaturità etica li rende vulnerabili all’opulenza del denaro e alla gestione del potere fine a stesso. Napoli dovrebbe tributargli gli stessi onori resi a Pino Daniele, perché ben prima del musicista l’aveva posta al centro della storia nazionale sottraendola al peso di un immaginario stereotipato e restituendole la dignità di unica vera metropoli italiana, portatrice di una cultura autoctona senza eguali.