Francesco Lettieri: “I miei video non sono spot per i cantanti, Liberato esisterà fin quando ci saranno nuove idee”
L'amore veleno e antidoto, l'estetica curata nei dettagli e Napoli da cornice: i videoclip di Liberato non sono semplici spot per i suoi brani, ma storie pensate, racconti capaci di incidere tanto quanto un film. Il merito è di Francesco Lettieri, suo regista dal 2017. Per l'artista, ha realizzato i video di tutti i singoli e collaborato a quelli del progetto Capri Rendez-vous, concepiti sulle canzoni del primo album di Liberato, che non ha un nome "pecchè chill' nun sta bbuon' c'a cap". Nel 2020, poi, il suo esordio alla regia di un lungometraggio con Ultras, distribuito da Netflix. A Fanpage, Lettieri spiega cosa lo rende un regista atipico, capace di raccontare vite che nascono, si sviluppano e muoiono nei pochi minuti in cui si svolgono i brani: "Spesso il videoclip viene visto come un mero appoggio alla canzone. I miei, invece, sono video d'autore. Liberato mi permette di raccontare ciò che voglio, senza voler per forza comparire". E sul futuro del progetto dell'artista napoletano, la cui identità resta ancora un segreto: "Fin quando ci saranno le idee, fin quando ci divertiremo a sperimentare cose nuove, andremo avanti. Un ritiro non è nei pensieri".
Hai definito l'estetica visiva di due degli artisti più impattanti degli ultimi anni, che sono Liberato e Calcutta. Qual è il tuo punto di forza?
Ho sempre cercato di mettere al centro il mio immaginario, il mio modo di vedere le cose. I miei video, rispetto a quelli di altri colleghi, potrebbero essere considerati video d'autore. Le idee sono sempre state mie, quasi mai ho fatto solo playback. Spesso il videoclip viene visto come una sorta di spot del cantante, in cui si mostra con outfit particolari in una location suggestiva. Ciò comporta che non vada oltre il mero utilizzo di appoggio alla canzone. Purtroppo la maggioranza dei lavori in circolazione segue ancora questa strada.
L'impressione è che, nel connubio musica-immagini, i tuoi video abbiano una capacità di incidere molto più profonda di quella di molti film.
Ne sono felice, ma questo mio approccio non piace a tutti. Nella mia carriera non ho realizzato video per molti cantanti, ma piuttosto diversi filmati, sempre per gli stessi artisti. Penso a Calcutta, a Giovanni Truppi, a Francesco Motta, che sono tra quelli con cui ho lavorato di più.
E poi hai conosciuto Liberato…
Mi ha sempre dato la possibilità di raccontare le mie storie. Non mi ha mai imposto la sua presenza nei video e, al contrario, non ha mai voluto comparire come protagonista. Il fatto che si tratti di un progetto autoprodotto è fondamentale, perché ci dà la possibilità di scegliere che video fare, come farlo e quanto spenderci. Ci è capitato anche di investire molti soldi per un solo progetto, solo perché ci andava di farlo, optando per soluzioni non particolarmente pop. Siamo noi che decidiamo.
Secondo la tua visione artistica, credi che l'uso dell'intelligenza artificiale per il suo ultimo video, Turnà, realizzato da Gabriele Ottino e Akasha, sia riuscita a restituire l'emotività su cui tanto punti?
Si è trattato di un esperimento e, secondo me, gli esperimenti sono sempre riusciti nel momento in cui si cercano nuove strade. Analizzando la canzone, si capisce che non si parla di un pezzo emotivo. Non gioca sulle solite note di Liberato, che sono quelle della tristezza, della separazione o dell'innamoramento. Lo vedo come un affresco contemporaneo della città di Napoli, un brano ritmato che non ha momenti introspettivi. Non ci vedevo un video che parlasse di una storia d'amore, è il motivo per cui abbiamo scelto di usare l'AI.
Con il terzo album, Liberato conferma di non volersi staccare da Napoli, sia nei testi che nella riproduzione video dei suoi brani.
Negli anni Novanta c'era l'urgenza di cominciare a cantare in napoletano, per poi andare fuori e proporsi a un pubblico più grande. È quello che ha fatto anche Pino Daniele, ad esempio. Oggi, questo problema non esiste più e, al contrario, anche chi non viene da Napoli canta in napoletano per avere successo.
L'impressione è che si tratti di un'ondata destinata a ritirarsi. Come farà a proporsi anche fuori da questo tema?
In futuro potremmo raccontare storie non per forza ambientate a Napoli, ma il suo resterà sempre un progetto legato alla città, col suo mare, le sue strade e il suo tifo. Lui si approccia a questi argomenti in modo diverso, sia per la proposta musicale che dal punto di vista concettuale.
Nel brano ‘O Diario confessa di essersi sentito bloccato prima della stesura del terzo album. In quei momenti, ha mai valutato l'ipotesi di prendersi una pausa più lunga o, addirittura, ritirarsi?
Al momento, vive un periodo di grande creatività e un ritiro non è nei pensieri. Se un giorno Liberato dovesse stancarsi di fare Liberato e vorrà fare altro, ne riparleremo. Per ora ha un grande seguito e, quindi fin quando sarà così, fin quando ci saranno le idee, fin quando ci divertiremo a sperimentare cose nuove, andremo avanti.
Pochi giorni fa è stato il decimo anniversario della morte di Pino Daniele. Da poco hai concluso le riprese di Pino è, il documentario che hai diretto su di lui. Cosa ti ha restituito quest'esperienza?
Non è stata una mia idea, sono stato contattato e sono stato felice di accettare il lavoro. Ho passato gran parte della mia adolescenza, fino ai 22-23 anni, ascoltando i suoi primi dischi. Sono stati una spinta per prendere la mia strada, per scegliere di andare a Roma, di studiare cinema e di mantenere la mia napoletanità anche fuori da Napoli. È stato il motivo per cui ho sentito la responsabilità di dovermi impegnare per questo documentario.
Nel 2020 hai esordito alla regia di un lungometraggio con Ultras, con le musiche di Liberato. Se da un lato ricordo alcune critiche rispetto alla rappresentazione di quel mondo, per alcuni troppo romanzato nel film, dall’altro la madre di Ciro Esposito recriminò che i riferimenti alla storia di suo figlio fossero troppo espliciti. Come ti poni oggi, a distanza di tempo, rispetto a quel dibattito?
Erano gli anni del Covid e, quindi, ci fu tanta attenzione sul film, forse troppa, visto che ognuno sentiva di dover dire la sua. Ho ricevuto tantissimi complimenti, ma anche tante critiche. L'ho scritto senza conoscere nel dettaglio la storia di Ciro, perché all'epoca neanche avevo voluto studiarla, proprio per poterne rimanere distaccato nel racconto. All'inizio, si accenna a un ragazzo morto in alcuni sconti, ma poi la storia prosegue su tutt'altro. Anche se ci fosse stato un riferimento a lui, resta solo un riferimento. Scelsi di pubblicare un post sull'argomento, ma tornassi indietro non lo rifarei, perché la trovo una polemica sterile. Il cinema ha sempre una relazione con la realtà, ma la gente spesso dimentica che si tratta di finzione. Ci sarà sempre qualcuno che si sentirà chiamato in causa o che dirà che le cose potevano essere raccontate meglio. Probabilmente, se dovessero fare un film su un regista napoletano che ha vissuto a Roma per anni, mi sentirei coinvolto e penserei lo stesso.