Festa della mamma: da Pasolini a Ginsberg, cinque bellissime poesie dedicate alle madri
Per molti poeti, dall'antichità fino ai giorni nostri, la figura materna ha costituito un'inevitabile specchio in cui guardarsi, in cui esser costretti a fare i conti con le proprie vite. Molti poeti hanno scritto alle proprie madri assenti, lontane o scomparse: perché solo grazie al distacco la poesia si carica di quella forza comunicativa che la contraddistingue. Attraverso il rapporto con la madre, il poeta parla di se stesso. In occasione della Festa della mamma, ecco cinque poesie dedicate a questo inesauribile rapporto.
Umberto Saba, la “Preghiera alla madre”
Questa poesia, pubblicata nella raccolta “Cuor Morituro” nel 1929, è occasione per Saba di fare i conti con il complesso e a tratti doloroso rapporto con sua madre, Rachele Coen. Il padre, Ugo, l'aveva abbandonata prima della nascita del bambino, e il piccolo Umberto si era ritrovato a crescere con una donna aspra e severa, indurita dai sensi di colpa e dai vissuti amorosi travagliati. Ma per tre anni Umberto Saba viene affidato ad una balia, Peppa Sabaz, una contadina slovena che lo cresce con amore e dedizione: il poeta si lega indissolubilmente a questa donna, e nel 1910 cambia il proprio cognome per assumere quello di Saba, in omaggio alla nutrice. Due figure materne, dunque, coesistono in questa poesia, in cui entrambe si sublimano fino a rappresentare il rapporto, doloroso ma pieno d'amore, di un figlio con sua madre:
Madre che ho fatto soffrire (cantava un merlo alla finestra, il giorno abbassava, sì acuta era la pena che morte a entrambi io m’invocavo). Madre ieri in tomba obliata, oggi rinata presenza, che dal fondo dilaga quasi vena d’acqua, cui dura forza reprimeva, e una mano le toglie abile o incauta l’impedimento; presaga gioia io sento il tuo ritorno, madre mia che ho fatto, come un buon figlio amoroso, soffrire.
Pier Paolo Pasolini, "La Ballata delle Madri"
Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro in un mondo a loro sconosciuto, presi in un giro mai compiuto
d'esperienze così diverse dalle loro, che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate, a redattori rotti a ogni compromesso, capirebbero chi siete?Madri servili, abituate da secoli a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto l'antico, vergognoso segreto d'accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato, come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.È così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di esser uomini.
Anche in questo caso, una figura ambivalente quella della “madre”, a metà fra allegoria e realtà. Le madri a cui Pasolini si rivolge indirettamente in questo inno sono due: la povera, maltrattata “mamma Roma” e la sua, amatissima, Susanna. Pier Paolo Pasolini ci interroga sull'amore materno con una forza incredibile: come, con quale forza e coraggio, una madre può insegnare al proprio figlio un dolore così immenso come quello di diventare uomo? Pasolini, che per tutta la vita non smise mai di raccontare di quel legame fortissimo, “mostruoso”, di una madre con i suoi figli.
“Kaddish” di Allen Ginsberg
Un'identità complessa quella di Ginsberg: ebraismo, buddismo, omosessualità, beat. Una complessità che si esprime con forza in “Kaddish” e che sembra trovare il punto di equilibrio proprio nella figura della madre, e nella difficile espressione del dolore per la sua morte. Naomi Ginsberg aveva vissuto gran parte della sua vita in un ospedale psichiatrico, e il senso di colpa per non esserle stato vicino colpisce Allen in modo indicibile. Ci vollero tre anni per scrivere questa poesia: un rito funebre di un figlio per la madre.
Con la tua pancia gonfia, con la tua paura di Hitler, con la tua bocca di brutti racconti, con le tue dita di mandolini rotti, con le tue braccia, con la tua pancia.
Con la tua voce, con il tuo naso e i tuoi occhi, con i tuoi occhi di senza quattrini, con i tuoi occhi di falsa porcellana, con i tuoi occhi di Russia, con i tuoi occhi di India affamata, con i tuoi occhi da gatta sul tavolo operatorio.
Con i tuoi occhi soli, con i tuoi occhi.
“Le Mani della Madre”, Rainer Maria Rilke
La poetica di Rainer Maria Rilke racchiude, all'interno di versi sublimi e di una metrica raffinata, un intenso e complesso rapporto con la divinità. In questo caso, la figura della madre per eccellenza è la Madonna, a cui Rilke dedica un breve poemetto, scritto nel 1902: la maternità si fa qui occasione di perdono e redenzione.
Salute a te, l’anima vede: ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta, verranno a aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola: in te si perde la mia parola come nella foresta.
“La madre”, Giuseppe Ungaretti
Anche in questo caso il doloroso distacco dalla figura materna diventano occasione per una lirica affranta, ma piena di ammirazione per una madre che si trasforma in un simbolo di amore senza paragoni. La madre di Ungaretti attende il figlio, e con esso tutti i figli, sulla porta dell'eternità, pregando per la sua salvezza e rivolgendogli sguardi d'amore: come in tutte le sue poesie, forte è l'eco della tragedia della guerra e di un vissuto carico di dolore.
E il cuore quando d’un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d’ombra per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa, sarai una statua davanti all’eterno, come già ti vedeva quando eri ancora in vita.
E solo quando m’avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi. Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.