Quando nacque la Festa del Lavoro nel luglio 1889 a Parigi, per commemorare i fatti di sangue avvenuti il 1 maggio di tre anni prima a Chicago, il piccolo cocchio di Sant'Efisio trainato dai buoi viaggiava già da 233 anni, e aveva percorso la bellezza di oltre quindicimila chilometri. Si tratta infatti della processione a piedi più lunga d'Europa, che scioglie un antico voto fatto dalla cittadinanza negli anni della grande peste. Un viaggio che inizia puntuale ogni anno a mezzogiorno dalla piccola chiesetta a lui dedicata nel cuore di Cagliari, sotto la secolare cura e attenzione dell'Arciconfraternita del Gonfalone di Sant'Efisio Martire, con un cerimoniale che lo porta nel giro di quattro giorni ad andare e tornare dalla chiesa romanica, un tempo campestre, di Nora, nel comune di Pula, dove il Santo fu decapitato nel 303 d.C. Nato nel 250 da madre pagana e padre cristiano nella città di Elia, in Asia minore, si arruolò giovanissimo nelle truppe di Diocleziano e fu un sanguinario sterminatore di cristiani. Ma nel suo viaggio verso l'Isola una notte ebbe una visione in sogno, e tra le nuvole scorse una croce che gli intimava di convertirsi. In quella visione spaventosa udì anche la voce di Dio preannunciare il suo martirio, che avverrà effettivamente pochi anni dopo, a seguito di lunghe torture.
Nel tentativo di coprirsi il volto per proteggersi da quelle visioni apocalittiche, nella sua mano destra restò impresso lo stigma a forma di croce che ancora contraddistingue la statua, un'opera lignea del 1657, che ancora viene trasportata in un cocchio nella sfilata del 1° maggio, e che rappresenta il santo vestito da soldato romano ma con barba e baffi, secondo la moda spagnola del periodo. In realtà esiste una statua ancora più antica, del 1500, che il popolo chiama Sant'Efisio "saballiau" cioè "sbagliato" in quanto reca la croce impressa sulla mano sinistra. Vittima della rigidissima iconografia, il povero Sant'Efisio fallato non viene vestito di damasco né viene ingioiellato e portato in processione. Eppure gode anch'esso di grande devozione da parte del popolo sardo. Quanto all'originale, considerato un traditore da Diocleziano, venne prima fatto gettare in un pozzo, ai cui stenti sopravvisse. Poi gettato tra i carboni ardenti, riuscendo a scampare vivo anche alle fiamme purificatrici. E solo allora la sua vita terrena si concluse sul patibolo dove oggi sorge la chiesetta di Nora, per mezzo della lama di un centurione che gli tagliò la testa. La sua carriera da Martire inizia invece milleduecento anni dopo, sulla base probabilmente di un culto ben più antico, ed è certamente un curriculum di tutto rispetto: innanzitutto sconfisse la peste. Era il finire del 1500 quando un marinaio appestato giunse dalla Spagna nell'enclave catalana di Alghero. Il morbo camminò veloce e non da solo. In quegli stessi anni l'Isola fu flagellata in successione: nel 1629 da un'invasione di locuste che portò carestia; nel 1637 da alluvioni che distrussero i raccolti; nel 1638, nel 1644 e nel 1645 ancora da una tragica successione di locuste e carestie nei campi. Il 1647 fu l'anno della siccità, e quando nel 1652 finalmente ci fu un buon raccolto, venne razziato dai famelici invasori spagnoli, che requisirono 40.000 starelli di grano e 70.000 d'orzo per nutrire l'esercito in guerra contro i francesi.
Quindi la peste nera ebbe gioco facile nel falcidiare l'isola e quando giuste nel Castello di Cagliari intorno al 1656 le cronache parlano di oltre duecento morti al giorno. A nulla servirono gli interventi dei luminari in materia, solo l'aiuto del Cielo avrebbe potuto salvare il capoluogo sardo. Non sappiamo se fu il Santo o i roghi che la popolazione, lasciata sola mentre i nobili conquistadores riparavano fuori città tra Iglesias e Macomer, appiccò a tutti i suppellettili, mobili, vestiti, coperte e quant'altro. In città non rimanevano che i sacerdoti più coraggiosi e misericordiosi, anch'essi moribondi. Che provavano a salvare i neonati, mentre adulti e madri e balie morivano. Quegli stessi sacerdoti che in assenza di un governo della città istituirono una tassa sul vino pur di tentare l'ultima carta richiesta a gran voce dalla popolazione: una processione. Un'idea folle, visto che il morbo non aspettava altro che assembramenti per diffondere il proprio contagio. Eppure quella primavera il cocchio uscì, e la narrazione vuole che entro luglio il morbo si acquietò e nessuno morì più di peste nell'isola e in città per molti mesi. E da allora dopo 363 anni la processione si rinnova così ogni anno sempre uguale con rarissime eccezioni. A fine Settecento viene portato fuori anche nel giorno del Lunedì dell'Angelo per sciogliere un altro voto espresso quando, nel 1793, fece naufragare, grazie a un terribile nubifragio, le navi francesi capitanate dall'ammiraglio Laurent Truguet, che veniva a conquistare l'Isola secondo i dettami della rivoluzione francese del 1789. E qui gli studiosi ancora dibattono se questo fu un miracolo o una sciagura, dato che i Sardi erano sotto il giogo dei Piemontesi e ci si chiede cosa sarebbe stato dell'Isola se fosse stata annessa al futuro dominio napoleonico.
Ma il dubbio fu tolto dall'azione combinata dei Sardi e del cielo: i primi coi fucili, il secondo col maltempo che squassò, disperdendole, le navi sbarcate nei pressi del Golfo degli Angeli, la baia antistante la città, ma che si dovettero rimbarcare in tutta fretta fallendo la conquista di Cagliari. Un'altra eccezione si ebbe nel 1917 quando per le varie proibizioni durante la Grande Guerra, il Santo non sfilò. Unica volta in 363 anni. In compenso l'anno dopo, nel 1918, che precedette la fine della Grande Guerra (conclusasi il 4 novembre successivo con l’armistizio di Villa Giusti) a trainare il cocchio di Sant’Efisio fino a Nora non furono i buoi, ma bensì alcuni reduci rientrati miracolosamente vivi dal fronte bellico che vollero in quel modo ringraziare il Santo per aver avuto salva la vita. Gli stessi soldati in divisa trainarono il cocchio anche nel viaggio di ritorno da Nora fino alla chiesa di Stampace. Ma il miracolo più amato e commovente, forse perché più vicino nel tempo, Sant'Efisio lo compì nel Maggio del 1943, quando Cagliari era stata completamente rasa al suolo dai bombardamenti americani durante la Seconda Guerra Mondiale. A successive ondate i terribili aeroplani alleati avevano martellato civili e case per tutto febbraio e avrebbero continuato per tutto maggio, sino a lasciare in piedi poco meno del 30% della città. Ma nonostante i rischi, dei temerari soldati, con l'aiuto di un furgoncino del latte al posto del celebre cocchio trainato dai buoi, fecero sfilare il Santo tra le macerie, seguiti da pochi ma commossi fedeli. Di quest'ultimo avvenimento esistono rarissime immagini e un filmato che riporto, e che si deve all'intraprendente Marino Cao, uno dei primi video amatori della città, la cui testimonianza assume oggi valore inestimabile.
Eppure tra tutti gli ex-voto che vengono affidati al Santo tra i più amati d'Europa, oltre alla salute, non può certo mancare un'invocazione dei tanti sardi senza lavoro. Ed ecco che qui fede e carestia si rintrecciano nei secoli. In una terra dove l'emigrazione ha ripreso a ritmi di inizio Novecento (scappano oltre 3000 giovani sardi all'anno), nonostante ci sia stato concesso in dono un vero paradiso terrestre, come diceva De André, nonché una delle regioni più spopolate d'Europa: poco più di un milione e seicento mila abitanti, (eravamo appena un milione in meno 363 anni fa quando avvenne la prima sfilata di Sant'Efisio) che vivono nella seconda Isola più grande del Mediterraneo (ventiquattromila chilometri quadrati). Da cui deriva una densità abitativa media di 68 persone per chilometro quadrato, che ci rende la terza regione più spopolata d'Italia. Ebbene davanti a questi numeri la disoccupazione giovanile in questa terra sfiora il 50% (46,8%) e la disoccupazione generale intorno al 17%. In pratica gli occupati sono circa 620.000. Ora, togliendo i pensionati, i bambini, gli ospedalizzati cronici, i lavoratori pubblici di scuole, comuni, regione, province, enti parastatali, levando chi sta alle poste, ai call center, nelle casse dei supermarket, gli occupati del settore pesca e agricoltura (poco più di 30 mila addetti, meno del 5%, in un'isola circondata dal mare che fu il granaio di Roma!) la metà di quanti lavorano nell‘industria e nell'edilizia, un decimo di quanti lavorino nei servizi, mentre sono appena 144.000 i lavoratori di settori come commercio, alberghi, e ristoranti, io quest'anno una domanda allora a Sant'Efisio gliela devo proprio fare, pronto ad andare e tornare a piedi come tanti fedeli per gli 80 km che dura la processione: come si fa con tutto questo ben di Dio di spiagge, cultura, cibo, vino, natura, tradizioni, dolci, pani, foreste, archeologia millenaria, a non riuscire a trovare un lavoro ai poco più di 200.000 disoccupati sardi?
Parliamo di un'isola che offre in pratica un chilometro quadrato di paradiso a ogni 10 disoccupati. Stiamo parlando della terza regione d'Italia per grandezza dopo Sicilia e Piemonte, nella quale da secoli non si riesce a dare piena occupazione, dove piena occupazione vuol dire trovare lavoro a tanta gente quanto un quartiere (piccolo) della periferia di città come Roma, Milano o Napoli. Ora io ti domando e dico, Sant'Efisio Martire glorioso: ma questa è davvero roba per cui disturbare un Santo e invocare un miracolo, o dovrebbe essere la cosa più semplice da fare anche per il politico più scalcagnato degli ultimi 363 anni? Una domanda che mi rimbomba in testa mentre le sirene delle navi alla fonda nel porto salutano il passaggio del Santo, la città accoglie il suo cocchio come una barca in un mare di petali, e dietro di lui, sempre uguale da quasi quattrocento anni sfilano in alta uniforme i rappresentanti delle istituzioni e poi dopo il popolo della Sardegna intera, con le antiche "Traccas" i carri a buoi, e ogni paese con i suoi abiti tradizionali. Per tutti loro e per noi, in questo ennesimo Primo Maggio, facci questo miracolo, Sant'Efisio, il più difficile: trovaci una classe politica che non sia peggio della peste per quest'isola. Proteggi i sardi, soprattutto da sé stessi