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Felicia e l’angelo della morte

La fiction di Sky, a differenza di quelle della Rai, non ha come obiettivo la diffusione di una pedagogia civile ma il successo del pubblico pagante.
A cura di Marcello Ravveduto
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Ho visto le prime due puntate della seconda stagione di Gomorra – La serie e il film per la Tv dedicato a Felicia Impastato, la mamma di Peppino. Ho trovato tanti commenti postati su Facebook. Due mi hanno colpito in maniera particolare.

Il primo:

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Il secondo:

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Si passa dall’esaltazione del valore di madre allo scoramento più totale per quanto riguarda gli “effetti di Gomorra sulla gente”. Già prima della messa in onda della nuova serie in un articolo online si legge:

«Gomorra sì o Gomorra no? Il “dilemma” Sky sta riducendo in poltiglia quel poco che resta dell’identità di un territorio già svenduto al magma della monnezza e all’affanno dei pargoli immolati a Ecomafia o divorati dai pedofili. Insomma, l’Interrogativo – a ridosso dell’attesissima seconda stagione che inizia il 10 maggio 2016 su Sky – è il seguente: una fiction come Gomorra educa o corrompe il popolo che la guarda?».

Siamo sicuri che la domanda posta sia quella giusta? La fiction di una pay Tv, a differenza di quelle della Tv di Stato, non ha come obiettivo la diffusione di una pedagogia repubblicana ma il successo di pubblico pagante. Direi piuttosto che il dilemma si pone come irrisolvibile se continuiamo a voler confrontare le necessità del mercato dei media commerciali broadcast con quelle dell’impegno civile.

Consideriamo i dati di ascolto. Felicia raggiunge 6,871 milioni di telespettatori, Gomorra arriva a 1.186.325 teleutenti. Messa così il modello educativo della Rai sembra battere quello noir di Sky. Ma se consideriamo che la seconda si rivolge ad un pubblico di abbonati a pagamento, molto più ristretto di quello di Rai Uno, e che riesce ad ottenere il 76% di permanenza davanti allo schermo (senza dimenticare il progresso di circa il 100% rispetto alla prima stagione superando tutte le serie ed i film passati sulla pay satellitare), allora il dato, in confronto proporzionale, è notevolmente superiore.

L’incipit della seconda stagione è folgorante. Ciro da “immortale” si trasforma in angelo della morte. Il denaro e il potere lo hanno definitivamente risucchiato in un loop paranoico in cui il solo proposito plausibile è il controllo di una piazza di spaccio in assoluta autonomia, secondo la logica degli scissionisti.

Quando si accorge che gli mancano i soldi per raggiungere la meta, scatta un meccanismo di ansia da prestazione che viene colmato dal surplus di violenza: ottiene quel che vuole lasciando alla spalle una scia di sangue di persone innocenti.

L’assalto al portavalori è in tal senso l’annuncio della svolta psicologica di Ciro che abbandona l’ambiguità della prima serie per vestire, senza più remore, i panni della “bestia”. Elimina le guardie giurate come mosche fastidiose appena riesce a mettere le mani sul denaro di cui ha bisogno per avviare il business.

Entra, poi, nella vita dei marginali piegandoli alla sua psicologia malvagia: uno dei tanti guaglioni ‘e miezza ‘a via accetta di sobbarcarsi la colpa del tentato omicidio di Jenny nella speranza che i soldi sporchi di sangue possano assicurare un reddito sicuro alla famiglia disagiata.

La bestialità (da coccodrillo diabolico) si dipana in tutta la sua drammatica prossemica nell’omicidio della moglie a mani nude. Un omicidio che sottolinea da un lato la perdita di qualsiasi freno morale (la moglie nella prima serie era una bambola intoccabile), dall’altro il vivere in una costante condizione di allerta, facendo piazza pulita di chiunque possa ostacolare la sua ascesa.

La morte, in Gomorra, è un atto scenografico la cui enfatizzazione avviene attraverso un corredo di azioni preventive e complementari, frutto di una complessa elaborazione logica. Come nelle perversioni, c’è un’intesa attività inventiva a sostegno dell’atto crudele, un’idealizzazione estetizzante che ignora l’altro in quanto persona.

Ciro ha bisogno di ribadire a se stesso che è un vincitore perché sa di essere un perdente e il pianto alla fine della puntata è la presa di coscienza interiore di questa sua debolezza.

Nel secondo episodio ritroviamo Jenny e don Pietro. All’inizio l’erede sembra aver raggiunto un suo equilibrio derivante dalle esperienze vissute che lo hanno condotto alla soglia del decesso. Una specie di resurrezione psicologica che ce lo mostra ormai maturo. Una maturità precaria, tuttavia, che si liquefa al cospetto del padre. Riemerge in tutta la sua potenza il rapporto irrisolto tra i due uomini in cui la soggezione di Jenny si ammanta di preoccupazione per quel genitore vecchio e stanco ma indomito.

Pietro a sua volta, in questo nuovo inizio, ricopre il ruolo del perdente, ma s’intuisce che ha diverse cartucce ancora da sparare. In definitiva i due Savastano, come lo stesso Ciro, sono esseri solitari in competizione; una competizione che non ha più il sapore della contesa generazionale ma quello dell’affermazione della propria personalità come attestazione di una supremazia individuale.

Si evince poi, dal punto di vista dell’analisi dei fenomeni, la volontà di raccontare la globalizzazione mafiosa attraverso le rotte del narcotraffico e i luoghi d’investimento della ricchezza criminale. Dall’Honduras alla Germania (passando per Roma e Scampia) vediamo comporsi il quadro degli affari e delle infiltrazioni ma soprattutto s’intravede la regia occulta e inarrestabile della ndrangheta calabrese che muove i fili invisibili di un’organizzazione sviluppatasi organicamente nelle pieghe economiche e sociali di stati nazionali incapaci di impedire forme di colonizzazione criminale.

Sulla fiction Rai ho trovato due riflessioni condivisibili. Giorgia Iovane rileva: «Nonostante la presenza tra gli autori di Monica Zapelli – già firma de I Cento Passi – e dello scrittore Diego De Silva, la sceneggiatura non si eleva, il soggetto non scava nell'inchiesta e nelle sue continue altalenanti vicende (vero cuore della battaglia di Felicia), i dialoghi si fermano al grado zero della costruzione narrativa e i personaggi chiave delle indagini – ma anche figure chiave come il giornalista Mario Francese, il primo che raccolse un'intervista di Felicia – appaiono e scompaiono senza una concreta contestualizzazione procedurale e giudiziaria».

D’altra parte Andrea Meccia sottolinea: «Passaggi troppo rapidi, poco problematizzati. Il film accenna mille temi, situazioni, personaggi, passioni, battaglie, ma non ce li spiega mai fino in fondo».

Insomma la Rai è caduta di nuovo nella panacea del sentimentalismo borghese che tanto piace agli spettatori/militanti dell’antimafia, seduti comodamente sul divano di casa nell’intimità familiare. Un’occasione sprecata. Si sarebbe potuto finalmente eccitare un nuovo immaginario più corale intorno alla figura di Peppino, che provava a sfidare il mito dei “I cento passi”, così come ha fatto la serie Gomorra con “Il camorrista” di Tornatore, ma si è preferito rimanere ancorati alla consueta mission nazionalpopolare.

Oltre gli stereotipi filmografici un po’ scontati (l’espediente narrativo del cerchio che si chiude e il flash back reiterato dell’assassinio), gli attori (tranne la Lunetta Savino per la gestualità e Giorgio Colangeli per il mestiere) non reggono la prova.

Carmelo Galati nel ruolo di Giovanni Impastato non riesce a dare pathos al personaggio (ogni volta che piange rischia di provocare il cambio di canale), mentre Linda Caridi (Felicetta) sembra essere passata lì per caso. Gli amici, poi, non hanno alcun peso specifico. La distonia purtroppo è determinata da un principio malsano: l’importante è emozionare il pubblico con una storia edificante, non interessa come.

Questo modo di rappresentare l’antimafia rischia di annullare anni di lotte riducendola ad una serie di accadimenti privi di ricostruzione contestuale che, nel loro reiterarsi, si sommano in un’accozzaglia di luoghi comuni (la Pubblico ministero folgorata dalla morte di Chinnici, il ragazzino con la pistola divenuto testimone della memoria, il Badalamenti scimmione folgorato dallo sguardo fiero di Felicia).

L’spetto più interessante, in verità, è l’aver finalmente restituito dignità e centralità al ruolo di Umberto Santino (per certi versi ricorda l’Amato Lamberti di “Fortapàsc”) che ha sempre giustamente reclamato un riconoscimento pubblico per familiari e amici battutisi con caparbietà fino al ristabilimento della verità.

Il bene vince la guerra anche se il male si è aggiudicato qualche battaglia, magra consolazione per un paese ormai assoggettato alle mafie senza spargimenti di sangue.

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