Fabrizio Donvito è uno dei co-fondatori di Indiana Production, una delle realtà produttive italiane più dinamiche e attive degli ultimi anni. All’inizio del loro percorso, racconta, hanno lavorato soprattutto nella pubblicità, e già in quel periodo, quando avevano a che fare con vari clienti, avevano capito che c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui si immaginavano i progetti.
Oggi, con il cinema e la televisione, il punto di vista di Donvito non si è solo allargato, ma ha cominciato a prendere in considerazione diversi aspetti, che non riguardano esclusivamente la produzione. Per esempio: il modo giusto di comunicare i propri film al pubblico; provare a tracciare una strada da seguire fin dal momento primordiale della stesura e della pre-produzione. Romeo è Giulietta, uno dei titoli più recenti prodotti da Indiana, distribuito da Vision Distribution, si presenta come un caso interessante: Giovanni Veronesi, il regista, e Pilar Fogliati, attrice e sceneggiatrice, sono partiti per un vero e proprio tour in giro per l’Italia per incontrare il pubblico.
Quello che serve, spiega Donvito, è essere consapevoli dei propri strumenti e non usarli poveramente come spesso si fa con i social. Tra i prossimi progetti di Indiana ci sono Confidenza di Daniele Luchetti, al cinema dal 24 aprile, il biopic su Gianna Nannini, dal 2 maggio su Netflix, e la serie tv de Il Gattopardo. Che, ci tiene a precisare Donvito, resta un titolo profondamente italiano, radicato nel territorio e nella nostra tradizione, anche se sostenuto da uno sguardo più esterno e meno influenzato dai pregiudizi e dai paragoni. È questo, dopotutto, il segreto: avere coraggio, essere pronti a rischiare, sperimentare e ad avere un’idea dell’Italia come di una vera e propria industria. A Donvito piacerebbe lavorare a un film di fantascienza e a uno di animazione: uno più fattibile, dice; l’altro quasi impossibile. Questo è il suo Controcampo.
In questi giorni al cinema è uscito Romeo è Giulietta di Giovanni Veronesi, e mi ha molto colpito il tour che Veronesi e Pilar Fogliati hanno fatto in tutta Italia. Credi che stia diventando sempre più importante coinvolgere il distributore nelle fasi iniziali di sviluppo di un progetto, proprio per avere da subito un’idea chiara della sua promozione?
Dipende dai casi e, ovviamente, dipende dai film. Con Vision Distribution abbiamo un rapporto particolare, e ci sentiamo in ogni momento: dallo sviluppo alla scrittura, dall’inizio alla fine delle riprese. Dovrebbe essere così sempre, secondo me. Poi, per carità, puoi sbagliare lo stesso. Un film ha un suo percorso, un percorso che non conosci fino alla fine, finché non sarà in sala e avrà finito il suo ciclo. Gli strumenti che usi sono quelli che pensi che possano funzionare. Per Romeo è Giulietta, ci siamo mossi insieme.
E da che cosa bisogna partire?
Dal copione. Non ha senso aspettare di vedere il film finito. Quello serve, certo. Ma serve anche attivarsi prima, quando il film è ancora in fase di scrittura. Voglio dire: lo fanno le piattaforme streaming. E possiamo criticarle, certo; possiamo dire tutto quello che vuoi. Ma non possiamo ignorare questa loro accortezza. Si muovono in un certo modo e lo fanno sempre: leggono l’ultima stesura, ciò che – con buone probabilità – sarà il film, e cominciano già a immaginare quale potrà essere la strategia migliore.
C’è stato, secondo te, un punto di rottura?
Sì, ed è stata la pandemia. In quel periodo il nostro modo di fruire, di guardare serie e film, è cambiato. Non voglio parlare di prodotti; voglio parlare di opere.
E che tipo di cambiamento è stato?
Direi anche positivo. Basta guardare al tipo di film che oggi il pubblico cerca. Dieci anni fa, il successo di Perfect Days di Wim Wenders non era nemmeno immaginabile. Per carità, c’è Wenders, però se provi a “pitchare” la storia – un uomo che pulisce i bagni pubblici di Tokyo per due ore – a un distributore italiano difficilmente otterrai una risposta positiva. E invece i risultati ci dicono altro; ci dicono che il pubblico è pronto e vuole vedere storie come questa.
Secondo te, avvicinare il ruolo produttivo a quello distributivo è una cosa che succederà in futuro? Che verrà vista quasi come un’urgenza?
Assolutamente sì, come ci hanno già mostrato industrie molto importanti e grandi della nostra. In Italia bisogna iniziare a farlo. Non voglio puntare il dito contro nessuno, ma è evidente che serve coinvolgere anche gli autori: il film è loro, l’hanno scritto e immaginato; sicuramente sapranno a chi hanno voluto rivolgersi. Prima citavi il caso di Romeo è Giulietta: Giovanni si è messo in discussione in prima persona, ha partecipato attivamente alla promozione, proprio perché sapeva qual era il suo pubblico di riferimento.
Non c’è un rischio, a furia di tour nelle sale, di associare il costo del biglietto a un’esperienza specifica come quella di incontrare il talent di un film?
Secondo me, ma anche secondo i miei colleghi, è un’esperienza che può servire. Attori e registi hanno un rapporto con gli spettatori, e per gli spettatori questa può essere un’occasione per incontrarli e per poter parlare con loro del film. Torniamo di nuovo a Romeo è Giulietta: la risposta è stata incredibilmente calorosa. Questo, chiaramente, è un modo. Ma ce ne sono molti altri. Bisogna scoprirli di nuovo. Indiana nasce come società che si occupa di pubblicità. E se c’è una cosa che abbiamo capito, è che c’è anche un po’ di scienza. È necessario provare a immaginare subito il percorso di un film, lasciando comunque spazio per le novità e per ciò che è imprevedibile.
Che cosa serve, allora?
Confrontarsi. Ma farlo prima, molto prima dell’uscita in sala. Non funziona più ridursi all’ultimo momento. E poi serve usare gli strumenti che si hanno in maniera attenta e intelligente. Che vuol dire “pianificare i social”? Riempirli di trailer, di clip? Di cose sempre uguali? Non credo. C’è bisogno di rinnovare, di catturare l’attenzione degli spettatori. Chi sta sui social non equivale, poi, a chi andrà in sala. Facendo così, proponendo determinati contenuti, rischiamo solo di divorare il film.
Nel 2023 avete prodotto due dei film più interessanti e importanti della stagione: L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano e l’esordio alla regia di Pilar Fogliati, Romantiche. Siete stati immediatamente seguiti in questi due progetti o è stato difficile, all’inizio, riuscire a iniziare il loro sviluppo?
L’ultima notte di Amore è un film di cui siamo estremamente orgogliosi. È un polar che non si vedeva da tanto, tanto tempo. Il copione di Di Stefano era perfetto, davvero incredibile. Abbiamo cominciato subito a raccogliere le risorse e a mettere in piedi la macchina giusta. Di Stefano ha capito fin dal primo istante come girare. Il film di genere ha bisogno di un’attenzione particolare, proprio per poterlo raccontare al pubblico e per intercettare gli spettatori. C’è il pericolo, spesso, di non essere capiti. Noi che ci troviamo da quest’altra parte della barricata ci facciamo un certo tipo di domande; è probabile però che dall’altra parte nessuno ci pensi.
In che senso?
Il ragionamento del pubblico è più immediato. Quando qualcuno decide di andare a vedere un film, non si mette a riflettere sulla sua tenuta o su altri elementi. Se lo incuriosisce ci va, fine. E noi dobbiamo riuscire a intercettare questo meccanismo. Con un film di genere, c’è pure il rischio dei pregiudizi, di chi dice: è un film italiano, non vado a vederlo. Noi di questo film siamo contenti, lo ripeto.
L’ultima notte di Amore ha ottenuto, soprattutto grazie al passaparola, un certo successo.
Dipende tutto da quando un film arriva, alla fine. Non puoi mai sapere come andrà con certezza matematica; puoi provare a prevederlo e a immaginarlo, come ti dicevo. Ma in questo senso non ci sono analisi o dati che tengano.
E invece per quanto riguarda Romantiche?
Quello di Pilar è un percorso straordinario. Noi e Giovanni Veronesi, che ha fatto da produttore artistico per Romantiche, crediamo profondamente nel suo talento. Siamo all’inizio di un percorso, perché per noi Pilar deve esprimere ancora tante cose. Romantiche è l’affermazione di un’autrice. Non è solamente un’attrice comica o una caratterista. Nel nostro panorama, di profili come il suo ce ne sono veramente pochi. Quello che fa Pilar è quello che faceva Monica Vitti: alterna i registri, non è mai solo una cosa. Pilar conosce il suo pubblico e le persone sono felici di incontrarla perché è accogliente. E poi scrive bene. Molto, molto bene. Il nostro non è stato coraggio puro: la sostanza era evidente dal principio. Prossimamente sarà in Confidenza di Daniele Luchetti.
State lavorando anche al suo nuovo film da regista?
Sì, ma al momento siamo ancora in una fase embrionale. Ci sono tante idee. Bisogna trovare quella giusta.
Dopo la pandemia, com’è cambiato il lavoro del produttore?
Io credo che il ruolo del produttore sia cambiato al di là della pandemia. Era in via di trasformazione già nel periodo precedente.
C’è stata una consapevolezza diversa?
C’è stata un’altra idea, in realtà. Dobbiamo avere il coraggio di dire che questa è un’industria.
Che cosa significa essere un’industria?
Significa avere contezza che in questo momento, in Italia, ci sono più di 250mila persone che, direttamente o indirettamente, dipendono da questo settore.
Torniamo, allora, al ruolo del produttore.
Oggi è importante avere sempre presente questo aspetto. Capire, soprattutto, che non ci muoviamo più in una dimensione limitata e nazionale. Quello che fanno gli autori, che pensano e che provano, dovrà poi confrontarsi con il mercato. E anche di questo, della risposta del mercato, non dobbiamo avere paura. I film, per quanto riduttivo e freddo possa suonare, sono prodotti. E bisogna entrare nell’ordine di idee che i prodotti vanno venduti.
In questo processo quanto ha influito l’arrivo delle piattaforme streaming in Italia?
Molto. Sono delle big company, con strutture che non si fermano al nostro paese e interessi che non riguardano unicamente il nostro mercato. Le piattaforme streaming hanno portato con sé anche un nuovo modo di pensare, in cui oltre al valore qualitativo di un’opera c’è anche quello numerico, fatto di dati e di riscontri. Questo non significa affidarsi a un algoritmo; significa allargare il proprio punto di vista.
Con le piattaforme streaming, c’è stato un boom di produzioni.
E ora siamo alla fine di quella bolla. In Italia, abbiamo iniziato a muoverci, a pensare, come degli imprenditori anche per questo. È chiaro, poi, che siamo imprenditori privilegiati perché raccontiamo delle storie.
In molti mi hanno detto che la linea editoriale delle piattaforme è cambiata. Oggi si punta di più ai prodotti locali, rivolti al pubblico locale. Voi, però, avete lavorato a un progetto di aspirazioni chiaramente internazionali come Il Gattopardo.
Il Gattopardo ha aspirazioni internazionali, certo, ma resta una serie profondamente italiana. Secondo me, è importante fare un passo indietro.
Prego.
Tutto è partito, come sai, dal concetto di “glocal”: produzioni locali con un potenziale globale. Il successo non dipende dalla lingua, ma dalla natura stessa di queste storie, da quanto sono radicate nel territorio e nella cultura. Speriamo che da noi le piattaforme streaming non si aspettino unicamente serie crime.
E per quanto riguarda Il Gattopardo?
Siamo partiti dal libro, non dal film di Luchino Visconti. Il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è attualissimo, estremamente moderno, nonostante la sua ambientazione. Noi abbiamo deciso di raccogliere un cast italiano, anche se potevamo coinvolgere star internazionali. Lo abbiamo fatto proprio per rispettare certe sfumature che volevamo ottenere. Gli unici due aspetti veramente internazionali di questa serie sono il budget, che è molto importante, e chi ha scritto e curato il progetto, Richard Warlow. La sua prospettiva esterna ci ha permesso di non dare per scontate cose che non andavano assolutamente sottovalutate e di non fermarci davanti alla paura dei paragoni.
Quanto tempo ci avete messo per sviluppare questa serie?
Sette anni. Abbiamo dovuto superare prima una gara internazionale in cui, credimi, c’era tutto il mondo. Dopo aver espresso il nostro interesse, altri si sono fatti avanti per i diritti. Si vede che le idee sono nell’aria.
C’è già una data di uscita?
No, siamo ancora in fase di post-produzione.
L’anno scorso è stata annunciata l’acquisizione di Indiana da parte di Vuelta Group. In Italia è difficile rimanere indipendenti, senza realtà più grandi alle proprie spalle?
Ma noi, di fatto, restiamo indipendenti. Vuelta è una start-up, ha una dimensione decisamente più contenuta dei grandi gruppi internazionali. Non si sta muovendo come altre società; non sta comprando qualunque cosa. Vuelta, per noi, è stato un modo per fare sistema e per lavorare insieme agli altri in un network. Indubbiamente, serve anche fortificarsi visto il livello altissimo della competizione.
È più facile fare sistema all’estero che in Italia?
Sì.
Perché?
Noi abbiamo provato per due anni, durante la pandemia, a raccogliere forze e sinergie e a mettere insieme produttori e realtà differenti. E non ci siamo riusciti. Volevamo fare la stessa cosa che ha fatto Vuelta, ma con società italiane. E non perché siamo patrioti, intendiamoci. Ma perché abbiamo dei professionisti incredibili. Forse oggi sarebbe diverso, non lo so. Continuano a resistere un certo presidenzialismo difficile da abbattere e una visione molto più personale e meno industriale di questo lavoro.
Un altro film che avete prodotto negli ultimi anni è Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, il documentario su Massimo Troisi. Senza citare grandi eccezioni come Ennio, credi che il mercato si stia aprendo a questo tipo di titoli?
Fortunatamente sì. Come Indiana ci teniamo molto. Il docu-film o la docu-serie sono cose che ci appassionano. Laggiù qualcuno ci ama è stato un momento straordinario di un percorso molto più ampio. Aggiungo: per me quello è un film necessario, proprio per preservare la nostra memoria storica. Altrimenti rischiamo davvero di dimenticarci di tutti. Ed è una cosa terrificante.
Che cosa pensi, invece, della situazione dell’animazione in Italia?
Penso che abbiamo perso un treno. Dopo il successo de La gabbianella e il gatto, dovevamo costruire un’industria. Non l’abbiamo fatto. Oggi l’animazione è uno dei linguaggi più fortunati e seguiti al mondo. E da noi, invece, si fa ancora fatica a sviluppare progetti simili. Ci sono delle eccezioni, e le conosci. Prima parlavamo di Netflix: pensa alle serie di Zerocalcare. L’Italia, in questo momento, è un paese competitivo. Anche, per farti un esempio, sugli effetti speciali. Per me esiste un prima e un dopo Nirvana. In quel caso, siamo riusciti a dare un seguito a una certa esperienza e a sviluppare una vera e propria filiera. Con l’animazione no. Con l’animazione, ti ripeto, abbiamo perso un treno.
Di che cosa ha bisogno l’industria italiana?
Fossi un guru, probabilmente avrei una risposta. Ma non lo sono. È evidente che oggi facciamo più fatica a esportare film che serie tv. I motivi possono e sono tanti. Uno, sicuramente, è l’originalità. Sul cinema serve coinvolgere nuovamente il pubblico. E per riuscirci, perdonami, non dobbiamo dargli la merda. Non possiamo continuare a proporre sempre le stesse cose, seguendo gli stessi schemi e gli stessi ragionamenti. Le persone vogliono essere sorprese, vogliono emozionarsi; vogliono qualcosa di nuovo. Ed è una nostra responsabilità. Prima della pandemia, tra il 2018 e il 2019, stava succedendo qualcosa: i film italiani stavano andando meglio. Poi, però, si è fermato tutto e siamo tornati indietro.
C’è un problema con gli esordi? Oggi si producono di meno?
In realtà, oggi si producono tanti esordi. Non sono pochi. Sono tanti. Forse troppi. Solo alcuni sono film che hanno un senso. Il mercato può accogliere solo fino a un certo numero di opere prime. I nuovi talenti hanno bisogno di sostegno. Non si nasce già preparati e pronti per dirigere. Ci vuole coraggio, lo ripeto. E ci vuole soprattutto la voglia di fare cose diverse. Il ricambio generazionale non ci vuole unicamente nelle posizioni di potere; ci vuole soprattutto nelle idee.
Qual è il rischio?
Nel marasma generale, corriamo il pericolo di non valorizzare chi lo merita. E i primi ad accorgersene sono le piattaforme streaming, che chiamano e coinvolgono autori per i loro progetti.
A che cosa stai lavorando in questo periodo?
A breve, come sai, uscirà Confidenza di Luchetti. Su Netflix, invece, arriverà il biopic su Gianna Nannini, Sei nell’anima. E poi, ovviamente, c’è Il Gattopardo. E questa è la prima parte dell’anno. Nel secondo semestre, ci sono altri progetti come Vita, con Claudio Giovannesi, che parte dal romanzo di Melania Mazzucco. Intanto, ci stiamo già affacciando ai piani per il 2025.
Qual è l’errore più comune che fa chi vi invia proposte?
Prima ancora di questo, che varia a seconda dei casi, credo che si sia affermata una consuetudine sbagliata tra i produttori. E cioè: per produrre un certo film, si propongono accordi su più progetti. In questo modo, si dà spazio all’iniziativa degli autori e si sviluppano progetti che sono stati pensati interamente. È sbagliato. Dobbiamo tutti avere degli interlocutori pronti ad ascoltarci per quello che abbiamo da dire, e non solo perché hanno già in mente altro. Il cinema si fa anche per questo, per dare sfogo alle nostre follie.
E non succede?
Molto spesso, si leggono cose estremamente simili, che o hai già letto o hai addirittura già visto. I gioielli, i progetti che vale la pena di sviluppare, sono pochi. La questione rimane sempre la stessa: avere già in mente chi, poi, vedrà questi gioielli.
A te, ora, che film piacerebbe produrre?
Io vengo dagli effetti digitali, quindi non ti nascondo che mi piacerebbe sviluppare un film di fantascienza. E poi, cosa ahimè quasi impossibile, mi piacerebbe lavorare a un film di animazione.