Sembra che ormai sia divenuta una necessità sistemica ineludibile la liberalizzazione dell’eutanasia, parola greca dal suono venerabile, il cui significato, tuttavia, rimanda alla possibilità di somministrare la morte come estremo rimedio per vite che non siano più degne di essere vissute. E che talvolta, in effetti, si diano casi che così possono essere rubricati è sotto gli occhi di tutti. Da manuale il caso Englaro, che tutti ricordiamo.
Occorrerebbe, in verità, distinguere con attenzione tra eutanasia e interruzione della sua conservazione mediante apparati tecnici artificiali: ché si tratta di cose assai diverse e non reciprocamente riducibili. Circa la possibilità di sospendere l’esistenza con l’eutanasia – e non parlo qui, dunque, dell’interruzione nel senso poc’anzi richiamato –, credo che occorra procedere con cautela e, magari, con un surplus di riflessione critica, vuoi anche con un pluslavoro cognitivo e filosofico.
Due ragioni mi inducono a guardare con forte sospetto alle pratiche dell’eutanasia. Chi e come decide se e quando una vita è degna di essere vissuta? Quale criterio “oggettivo” può decretarlo? La scelta dell’individuo? Ma non si finirà forse, così, per assecondare nella sua forma più radicale e pericolosa la tendenza oggi imperante a fare della libertà la semplice liberazione libera-libertaria dell’individuo da tutti i vincoli etici, morali e religiosi? Non si finisce così forse per approvare a norma di legge il nichilismo di una società dai valori trasvalutati in cui il singolo può tutto, a patto che possa permetterselo economicamente?
In secondo luogo: il presente si contrabbanda oggi come eterno per esorcizzare l’idea del suo possibile superamento e, dunque, per imporre l’orizzonte dell’assenza di limiti e di confini anche in senso temporale. Questo aspetto, peraltro, è provato dalle due odierne aspirazioni – segretamente coincidenti nella loro correlazione essenziale – dell’allungamento indefinito dell’esistenza oltre le sue barriere naturali e della tanatopolitica dell’eutanasia come libera somministrazione della morte. Non parlo qui, per ragioni di spazio, dell’allungamento indefinito. Mi limito ad asserire che l’eutanasia come libera somministrazione della morte può rinviare al tacito presupposto che non sia degna di essere vissuta ogni esistenza non produttivamente all’altezza del cosmo mercatistico e delle pratiche consumistiche.
È questo il vero rischio: la vita è tua e “puoi” togliertela come e quando vuoi. Ma il “puoi” in questione è sempre quello della società di mercato: “puoi”, in realtà “dovrai”. “Puoi”, perché nessuno te lo impone, né te lo vieta. “Dovrai”, perché sarà la tua condizione socio-economica a importi di farlo.